Nell’universo Dal Forno: etica e filosofia della sua Valpolicella
“So che posso piacere o non piacere, ma devo sempre dire quello che penso”. Schietto ma non scontroso, timido ma al tempo stesso un fiume in piena appena prende la parola, Romano Dal Forno appartiene a quella schiera di produttori, non così tanti a dire il vero, la cui opera rappresenta una sorta di spartiacque all’interno non solo della sua denominazione di appartenenza, ma probabilmente anche dell’intero movimento vitivinicolo italiano.
Classe 1957, nato a due passi da Illasi, Romano Dal Forno ha reso la cosiddetta “zona allargata” della Valpolicella un punto di riferimento, ma soprattutto perseguito uno stile unico, che come lui può piacere o non piacere, ma certo non lascia indifferenti. I suoi sono vini senza mezze misure, incisivi e vigorosi, potenti ed eleganti al tempo stesso, senza tralasciare quel concetto di bevibilità, oggi tanto in voga, che naturalmente nel caso di vini ottenuti dall’appassimento di uve, assume sfumature e connotazioni diverse rispetto alla normalità.
“Nella mia vita ho scommesso l’anima in questa azienda. Forse non è stato giusto, ma mi reputo un uomo molto fortunato” spiega ad un piccolo gruppo di esponenti della stampa e della sommellerie che recentemente ha avuto la fortuna di confrontarsi con lui e i suoi vini a Milano durante uno dei rarissimi appuntamenti di questo tipo.
Il racconto della sua visione e della sua storia, ormai ampiamente tratteggiata in tanti articoli usciti in 40 anni, è stata forse anche l’occasione per fare una sorta di definitivo passaggio di consegne con il figlio Marco, di fatto già avvenuto nel 2020, ma mai realmente annunciato, com’è in fondo nello stile della famiglia, che ama poco l’enfasi e la pubblicità. “Sto lasciando sempre più spazio a Marco: sono consapevole che solo uno deve guidare. I giovani hanno visioni diverse, ma il futuro è loro”.
Dei tre figli, Marco è quello che ha seguito completamente le orme del padre, mentre Luca e Michele hanno deciso, sebbene sempre nel mondo del vino, di percorrere da poco altre strade. Ma questa è un’altra storia. “Bisogna sapersi ritirare al momento giusto” afferma ancora Romano Dal Forno che, in questo momento, veste sempre perfettamente il ruolo di ambasciatore della sua creatura. Il figlio è rimasto in azienda, visto il delicato periodo dell’anno per chi fa il suo lavoro, ma soprattutto avendo ereditato la stessa maniacalità del padre. Intanto, per presentare in anteprima le due nuove annate 2018, che usciranno in commercio a febbraio del 2025, c’è il fondatore: fiero e sereno, con il piglio di chi ha già dato e realizzato tanto, per sé stesso e la famiglia.
La storia, lo stile, il pensiero
Folgorato dall’incontro con Giuseppe “Bepi” Quintarelli – “Diventammo amici, vedeva in me quasi un figlio” –, Romano Dal Forno, fondata l’azienda nel 1983, decide all’età di 26 anni di non vendere più le uve ricavate dai suoi 7 ettari di vigna, ereditati dal padre, alla cantina sociale, ma di mettersi in proprio, percorrendo una strada, quella della ricerca di una qualità assoluta, non così diffusa in quel periodo in Italia, tanto meno in Valpolicella. E così quello che doveva diventare un autista di autobus del comune di Verona – “arrivai solo 27esimo a un concorso dove ne prendevano 3” –, si cimenta invece nella vendita porta a porta del suo vino.
Oggi, a poco più di 40 anni dalla nascita dell’azienda nella località Lodoletta in Val d’Illasi, produce circa 50 mila bottiglie all’anno provenienti da 34 ettari, di cui 18 di proprietà, che vengono esportati in 65 paesi nel mondo e si trovano nelle carte dei più prestigiosi ristoranti del mondo. Sostanzialmente si tratta di due soli vini, quasi “gemelli diversi”: il Valpolicella Superiore e l’Amarone della Valpolicella. Il terzo vino, l’ex Recioto e oggi chiamato solo Vigna Seré, ha visto la luce, l’ultima volta, con l’annata 2004 e non è chiaro quando ritornerà a essere pensato e messo in commercio.
“Non ho mai voluto avere una grande azienda: voglio abiti su misura. L’azienda deve essere un complemento della persona, dare reddito ed essere misurata. La ricchezza, invece, produce schiavitù, quella del tempo, mentre io voglio vivere una dimensione umana”. La cura con la quale racconta le varie fasi della sua avventura enologica, mettono a nudo il ritratto di un vignaiolo che si è sempre messo in discussione, con l’obiettivo di creare vini di valore assoluto, nella spasmodica ricerca della purezza del frutto, ma sempre con un piglio quasi hobbystico, animato cioè da una passione che forse, quando tutto diventa solo ed esclusivamente un “lavoro, scompare. E non è questo il caso.
Oggi i suoi vini appartengono all’elitario mondo delle cosiddette “blue chips” del vino italiano e internazionale, battuti nei lotti di molte aste del mondo, universo che però Romano Dal Forno dice di non seguire e conoscere. Assegnazioni e vendite si esauriscono in pochi mesi dall’uscita delle nuove annate e poi cominciano a crescere di prezzo, in alcuni casi anche vorticosamente se il millesimo è di quelli da ricordare e conservare gelosamente, meccanismo che capita d’altronde solo con alcune grandi icone del mondo del vino, come è il caso di Romano Dal Forno.
Se qualcuno avesse la tentazione di considerare questi vini, e la concezione che li fa nascere, fuori dal tempo e dall’attuale mercato, ha probabilmente ragione, ma per motivi differenti da quelli che si è portati a pensare. Sono vini difficilmente confrontabili con altri all’interno della stessa denominazione e che si smarcano da qualsiasi discorso relativo alle tendenze di consumo, che oggi prediligono vini in sottrazione, in alcuni casi ai limiti della vuotezza. Dal Forno è un marchio, un’icona, e chi gioca in questo campionato, viaggia su percorsi completamente differenti dal resto del mercato.
Scelte senza compromessi in vigna e in cantina
Alcune scelte passate definiscono bene quella che è stata sino ad ora l’impostazione e la mentalità. Le rese in vigna, oggi intorno ai 13mila ceppi per ettaro, sono ormai leggendarie, anche se in futuro potrebbero essere riviste al ribasso, per ammissione dello stesso Romano Dal Forno, a conferma di un approccio che si mette spesso in discussione, come successo già in passato. Nella “ricetta” che compone i Valpolicella, insieme a corvina, corvinone, croatina e rondinella non c’è la molinara, ma un altro autoctono, l’oseleta, riscoperto proprio da questa azienda e che secondo Dal Forno offre maggiore concentrazione e struttura. L’appassimento, ovviamente una fase delicatissima nel processo produttivo di questi vini, da queste parti diventa una sorta di ossessione da controllare sempre e costantemente, tanto da aver portato alla costruzione di un sofisticato sistema di ventilazione studiato ad hoc con pannelli scorrevoli che devono consentire il giusto grado di appassimento in ogni singolo acino, preservandolo dal rischio dell’arrivo della muffa. Sebbene l’approccio sia tuttora quello dell’artigiano, non è mai mancata, né mai mancherà, uno sguardo a ciò che la tecnologia può mettere al servizio per ottenere vini che vanno incontro al preciso canone della perfezione secondo Dal Forno.
La degustazione
È difficile considerare il Valpolicella Superiore un secondo vino rispetto all’Amarone, per tanti motivi, che diventano immediatamente evidenti appena versato nel bicchiere e dopo averlo portato per la prima volta al naso. Per complessità, portamento, forza, alla cieca può serenamente essere scambiato per un Amarone, anche se non esce in commercio come tale. La sua strada è d’altronde praticamente identica a quella del fratello maggiore, sebbene esistano ovviamente delle differenze. Cambia l’età delle vigne, ad esempio, più giovani quelle destinate alla produzione del Superiore, mentre quelle per l’Amarone devono avere almeno 10 anni di età. Cambiano i vigneti di origine, che nel caso dell’Amarone devono avere condizioni pedoclimatiche migliori. Cambia l’appassimento, che nel Valpolicella solitamente si ferma a un mese e mezzo, mentre nel caso dell’Amarone prosegue fino a tre. Per il resto sono molto simili. Dopo la fermentazione in acciaio e la svinatura, entrambi i vini vengono messi in barrique nuove, e anche in questo caso c’è una lieve differenza solo nel mix delle provenienze dei legni scelte per la maturazione dei due vini. La sosta in questi contenitori è tra i 24 e i 48 mesi a seconda delle annate, per poi passare al lungo affinamento in bottiglia. Entrambi vengono messi in commercio con almeno 7 anni sulle spalle. I due ultimi millesimi del 2018 vedranno la luce, quindi, a febbraio del 2025. L’Amarone del 2010 fa invece parte di una selezione messa in commercio nuovamente nel 2024. Il Vigna Seré 2004? È molto fortunato chi ne possiede ancora una bottiglia in cantina.
Valpolicella Superiore Monte Lodoletta 2018
Alcol 14,5%
60% corvina, 10% corvinone, 5 % rondinella, 15 % croatina e 10% oseleta. 24 mesi di maturazione in barrique nuove, 70% in rovere francese e 30% in rovere americano.
Rubino fitto e compatto nel colore, sfodera senza tentennamenti un frutto di ciliegie ed amarene netto, pulito, dolce e quasi croccante insieme e una grande varietà di spezie. La potenza alcolica dopo pochi minuti lascia spazio ad un incedere olfattivo più docile e meno urlato, dove non mancano note balsamiche e di piccoli frutti che ricordano more e mirtilli. Stupisce al palato per freschezza e dinamicità, con tannini levigati, avvolgenti e un allungo fruttato di grande intensità e piacevolezza.
Amarone della Valpolicella Monte Lodoletta 2018
Alcol 16,5%
60% corvina, 10% corvinone, 5% rondinella, 15% croatina, 10% oseleta. 24 mesi in barrique, 50% in rovere francese e 50% in rovere americano.
Potente, inonda le narici con una stratificazione di frutta davvero imponente: le solite ciliegie e amarene, ma anche le more e i mirtilli. L’ossigeno e il tempo gli donano compattezza e integrità, nonché note di cuoio, tabacco, cioccolato, talco e una componente speziata ricca e composita. In bocca entra morbido e suadente, ha un ritorno balsamico quasi rinfrescante che rende molto equilibrato il sorso.
Amarone della Valpolicella Monte Lodoletta 2010
Alcol 17%
60% corvina, 10% corvinone, 5% rondinella, 15% croatina, 10% oseleta. Maturazione di 36 mesi in barrique, 100% in rovere americano.
È un vino che cambia in modo costante e continuo con il passare del tempo nel bicchiere. Se l’ingresso è potentemente fruttato, con ricordi di crostata di visciole e di croccante alle mandorle, il tempo gli regala una complessità ed eleganza di grande stoffa: note di liquirizia e pomodori confit, tocchi vegetali, balsamici e di tè nero. Ovviamente al palato è avvolgente e sembra quasi didattico per illustrare il significato di “velluto”.
Vigna Seré 2004
Alcol 14%
60% corvina, 10% corvinone, 5 % rondinella, 15 % croatina e 10% oseleta. Maturazione in barrique nuove di rovere americano per 24 mesi.
È il vino più amato da Romano dal Forno ed è uscito, sino ad ora, sei volte: 1988, 1990, 1994, 1997, 2003 e 2004. Dal 2003 non è più un Recioto ma è stato declassato a IGT, dopo essere stato bocciato dalla commissione del disciplinare quell’anno. Fichi, prugne, amarene sotto spirito, tabacco e cenere, una quantità quasi infinita di sfumature speziate orientaleggianti. Stupisce soprattutto al palato, perché benché dolce, non è in realtà opulento come ci si aspetterebbe, ma anzi quasi fresco, invoglia il sorso successivo e soprattutto invoglia la ricerca di un abbinamento non necessariamente dolce e non necessariamente un formaggio.