La sfida della neuro-enologia alla degustazione tradizionale

Il nostro modo di pensare e descrivere il vino è una forma di “colonialismo culturale” che limita la nostra capacità di apprezzare ciò che abbiamo nel bicchiere? Una domanda provocatoria, ma che apre le porte a un affascinante viaggio nella neuroenologia, la nuova frontiera della degustazione che promette di rivoluzionare la nostra esperienza sensoriale.
Che siate o meno fedeli lettori di pubblicazioni storiche come Wine Spectator, le note di degustazione più familiari – quelle che probabilmente utilizzate anche voi per descrivere un vino – seguono un canovaccio ben noto: un repertorio di frutti, fiori, spezie, erbe e sentori animali o terrosi, profondamente radicati nel palato occidentale. Come osserva Kathleen Willcox in un suo articolo, critici ed enologi possono offrire solo descrizioni che corrispondono alla loro esperienza personale, e la maggior parte di essi è cresciuta con una dieta prettamente occidentale. “Ma cosa dire di chi è cresciuto in un luogo con dieci tipi di banane dal sapore completamente diverso, o venti varietà di agrumi?” si interroga Adam Casto, enologo presso Ehlers Estate Winery a Napa. “La banana o il mandarino che per molti di noi fungono da punto di riferimento sarebbero del tutto inutili, se non controproducenti, per loro.”
Questa riflessione è solo uno degli spunti che stanno spingendo molti professionisti del vino a intraprendere un percorso che potrebbe radicalmente reimpostare il modo in cui degustiamo e valutiamo il sapore del vino – e di ogni altra cosa. Tutto nasce da un libro del defunto neuroscienziato Gordon M. Shepherd, “Neuroenology: How the Brain Creates the Taste of Wine” (Neuroenologia: come il cervello crea il sapore del vino), diventato un testo di culto nei circoli enologici più “nerd”. Shepherd ha spiegato in termini accessibili come il cervello costruisca il sapore del vino e come le esperienze individuali plasmino le nostre percezioni.
Le neuroscienze, e in particolare lo studio dell’attività cerebrale tramite la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI), inventata nei primi anni ’90, permettono oggi di esplorare come percepiamo i sapori, quali regioni del cervello si attivano durante la degustazione e come ciò influenzi la nostra percezione. Questi studi, sottolinea Willcox, hanno dimostrato in modo definitivo che degustare un vino – ovvero annusarlo, assaggiarlo e analizzarlo consapevolmente, non semplicemente tracannarlo – stimola più aree del cervello che risolvere complessi problemi matematici.
La scienza dietro la percezione del sapore
Il vino, o qualsiasi cibo o bevanda, non contiene intrinsecamente “sapore”. Contiene molecole aromatiche che il nostro cervello esamina e interpreta attraverso un complesso sistema comportamentale che include memoria, percezioni, emozioni, linguaggio e capacità decisionale. Ogni volta che i dati olfattivi e gustativi vengono valutati nel nostro lobo frontale, vengono confrontati con migliaia di altre esperienze sensoriali passate.
Gran parte della nostra capacità di percepire il sapore dipende dal naso. Una volta che il vino è in bocca, la maggior parte del sapore che sperimentiamo proviene dall’olfatto retronasale, ovvero l’aria che dalla gola risale verso le cellule recettrici nel naso. Ma anche l’atto fisico di avere il vino in bocca e assaporarlo ne influenza il sapore: il liquido viene mosso dagli otto attivissimi muscoli della lingua, stimolando migliaia di recettori gustativi e olfattivi. Inoltre, il vino interagisce con la saliva, scindendo le proprie molecole e producendo composti (che dipendono anche da cosa abbiamo consumato durante il giorno) originariamente non presenti nel vino.
In altre parole, come un computer, il nostro cervello processa il sorso e ne restituisce una valutazione, profondamente influenzata dai dati con cui il “sistema” è stato costruito, portando a risultati talvolta imperfetti o parziali.
Enologi all’avanguardia: oltre le note descrittive convenzionali
“Questo campo emergente,” afferma Adam Casto di Ehlers Estate, “mi ha reso consapevole di quanto sia importante il processo cognitivo per l’esperienza sensoriale. Ho iniziato a separare il ‘gusto’ – amaro, dolce, acido – dal ‘sapore’ – come ciliegia o cioccolato, per esempio – quando valuto e discuto un vino. E mi concentro molto di più sulla texture.” Casto cerca persino di creare una “matrice salivare” costante prima di degustare, mangiando una manciata di mandorle per fornire una base al suo palato. Per eliminare i condizionamenti visivi, che possono influenzare significativamente la percezione del gusto, utilizza bicchieri neri e degusta in ambienti poco illuminati. “Ho fatto un esperimento con il mio team,” racconta, “servendo loro Pinot grigio colorato artificialmente per simulare rosé e rossi di vario corpo. Le descrizioni corrispondevano all’aspetto visivo: il ‘rosé’ mostrava note di fragola, e così via. E anche se sapevo dell’esperimento, sono caduto anch’io nella stessa trappola.” Questo dimostra la forza del bias di conferma, la tendenza a interpretare nuove informazioni in modo da convalidare le nostre credenze preesistenti. Di conseguenza, Casto si sta allontanando da descrizioni specifiche come “fragola”, preferendo concentrarsi sulle impressioni e sulle sensazioni evocate dal vino, un po’ come Maya Angelou che diceva: “la gente dimenticherà quello che hai detto e quello che hai fatto, ma non dimenticherà mai come l’hai fatta sentire.”
Anche Erik Kramer, enologo presso WillaKenzie Estate in Oregon, è sempre più attento a come “fattori fisiologici, direttamente legati alla genetica,” possano alterare drasticamente l’esperienza del vino. “Mentre si degusta,” spiega Kramer, “le proteine nella saliva si legano ai tannini presenti nel vino, sottraendo umidità alla lingua.” Una persona con livelli più elevati di proteine salivari percepirà inevitabilmente i tannini in modo diverso. Pur non potendo creare un vino che soddisfi tutte le fisiologie, questo spiega le diverse preferenze individuali. Per descrivere i suoi Pinot nero, Kramer si affida alla tessitura e all'”umore” del vino: “potreste preferire il nostro Emery Pinot Noir, più cupo e introspettivo, o l’Aliette Pinot Noir, più etereo e leggero.” Le preferenze, aggiunge, sono modellate dalla predisposizione fisiologica e dalle esperienze di vita. I ricordi, infatti, infondono profumi e sapori: “per me, il nostro Chardonnay ricorda il seme di senape dolce, ma per chi non ha familiarità con la senape, potrebbe evocare il miso bianco e lo yuzu.”
Spostarsi sulla descrizione della texture– come l’energia, la nervosità, la salinità o la cremosità di uno Chardonnay – offre un linguaggio più universale, comprensibile a chiunque, indipendentemente dal proprio bagaglio esperienziale.
“Rimescolare” la degustazione: l’influenza dell’ambiente
Jo Burzynska – sound artist, critica enologica e ricercatrice neozelandese con un dottorato in suono e vino – sfrutta questa nuova comprensione del gusto per aiutare chi vuole approfondire la propria esperienza degustativa. “Le scansioni fMRI ci hanno mostrato quanto siano interconnessi i nostri sensi,” afferma. “La mia ricerca esplora come l’esperienza sensoriale del vino venga effettivamente ‘rimescolata’ dagli ambienti in cui viene bevuto, con un focus su come il suono influenzi la percezione dei suoi aromi e sapori.”
Le sue ricerche dimostrano che le corrispondenze crossmodali – esperienze in cui un senso ne influenza un altro – modificano la valutazione di un vino. “Se state sorseggiando un bicchiere di Pinot nero in un club con bassi pulsanti,” spiega Burzynska, “probabilmente troverete il vino più corposo rispetto a berlo in una stanza silenziosa.” Alcune di queste corrispondenze sembrano universali, basate su connessioni neurologiche, ma altre sono specifiche di gruppi o culture, poiché l’esperienza personale plasma la nostra capacità di discriminare e valutare. Burzynska consiglia ristoranti e cantine su come creare l’ambiente ideale per valorizzare particolari vini, mentre per le sue valutazioni personali opta sempre per uno “spazio tranquillo e neutro.”
In conclusione, sebbene descrivere un rosé con note di fragola non sia certo la forma più oppressiva di condurre gli affari, esprimere l’umore e la tessitura di quel rosé potrebbe essere un approccio più democratico e, soprattutto, più accurato. Come ogni altro muscolo, l’olfatto e il gusto migliorano con l’esercizio. La prossima degustazione, che sia di vino, birra, bourbon o cioccolato, può diventare un’occasione per raccogliere dati che arricchiranno le esperienze future. Fatelo in silenzio, poi alzate il volume dei bassi. E la prossima volta che incontrate un frutto o un fiore sconosciuto, annusatelo: sarà un piccolo, prezioso contributo alla vostra personale analisi neuroscientifica.