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Vino
01/08/2025
Di Fabio Rizzari

Il potere spiazzante del vino

È un mantra ripetuto fino alla nausea: nel mondo del vino, come nel resto delle vicende umane, la chiave interpretativa giusta è quella di valutare caso per caso.
Nel vino, in particolare, guai a rilassarsi in convinzioni acquisite una volta per tutte.
Il vino ha una sua speciale e quasi beffarda attitudine a rendere ridicoli i giudizi troppo affrettati, e anche – purtroppo – alcuni di quelli accuratamente soppesati. Firme di livello nazionale e internazionale possono rimanere spiazzate dopo aver preso decisamente partito sull’evoluzione di un dato vino. Così è successo molte volte e succede ancora, con una frequenza che non dipende sempre dalla competenza del critico, ma dalla imprevedibilità di una materia vitale come il buon vino. 

Degustare una bottiglia in pace

Qualche esempio per rendere l’idea al neofita, o comunque a chi non è costretto a dare valutazioni professionali e può godersi una buona bottiglia in pace senza troppe elucubrazioni. Appena arrivati sugli scaffali, i rossi borgognoni dell’annata 1992 vennero rubricati da molti esperti come vini piuttosto deboli e di evoluzione rapida. “Da bere entro il 1995-1996”, si scrisse. Dopo una ventina d’anni abbondanti, non pochi ’92 si dimostravano invece non soltanto ancora belli tonici, per niente ossidati, ma anche espressivi, anche se non certo “grandi” nell’accezione classica del termine.
Altro caso. Non pochi Barolo dell’annata 2000 furono salutati al loro esordio come vini d’antologia, monumentali, “instradati verso l’eternità”. Però oggi, tra cru sfibrati, o surmaturi, o precocemente spenti dalla terziarizzazione avanzata, o scissi nella componente tannica (tannini del vino da una parte tannini del rovere dall’altra), non se ne trovano molti all’altezza delle aspettative iniziali.

Lo stupore

Ammaestrato da questa consapevolezza, e reso prudente da decine di degustazioni controintuitive, sono rimasto comunque spiazzato in varie occasioni.
Anni fa citavo in proposito la stappatura di due rossi da aree che si guardano in cagnesco da sempre, Bordeaux e Borgogna: lo Château Le Bon Pasteur 2003 e lo Gevrey Chambertin Vieilles Vignes 1999 di Philippe Charlopin.
Prima di assaggiare i vini ho richiamato alla memoria il repertorio dei relativi stereotipi: il primo era non soltanto un Pomerol (quindi per definizione un rosso potente ma di solito non fine, morbido, insomma ruffianello), non soltanto un 2003 (quindi, per luogo comune, figlio di annata caldissima, senza molto nerbo e tensione gustativa), ma anche – abominio! – un vino di Michel Rolland, enologo-simbolo dell’appiattimento e della banalizzazione del gusto internazionale. Il secondo, invece, veniva dalla zona più celebrata e venerata dagli enofili, la Côte de Nuits borgognona, da un’annata eccellente per la regione, da vecchie vigne e da un produttore piuttosto stimato.
Quindi, ecco quali erano le aspettative teoriche:
a) Le Bon Pasteur 2003, un rosso pieno di note dolciastre di rovere nuovo, senza dinamica, dai tannini “piacionici”, nel complesso furbo e costruito, privo di autenticità;
b) Gevrey Chambertin 1999, un rosso raffinato, armonioso, dai tannini sottili, un po’ giovane ma promettente.

Vincere i pregiudizi

Nei fatti: manco per niente. Suonerà inverosimile, ma il Bordeaux stava al Borgogna come Audrey Hepburn sta a Bombolo. Le Bon Pasteur si era dimostrato un vino di particolare grazia ed equilibrio, strutturato ma per nulla pesante. Nessun tono boisé stucchevoli, niente tannini sovraestratti e precocemente degradati, nessuna surmaturazione. Soprattutto, nessuna nota asciugata a centro e a fine bocca a frenare lo sviluppo gustativo. Lo Gevrey Chambertin era al contrario monolitico, tagliato con l’accetta, rudemente tannico, senza alcuna articolazione interna, con un legno scisso e – apparentemente – di qualità non altissima.
Per lo stesso meccanismo di frequenti smentite viniche, non escludo affatto che il Borgogna in questione sia oggi molto meno tozzo e squadrato; anzi magari avrà ritrovato tutti i suoi quarti di nobiltà.
Ovviamente si tratta di un caso limite. Il vino di Rolland era indubbiamente un’eccezione. Molti dei “prodotti” dell’enologo francese erano all’epoca davvero morbidi, iperfruttati e di tendenza ruffiana, mentre il Borgogna era stato verosimilmente pescato in una fase ingrata della sua evoluzione. La morale finale è telefonata. Per quanto un cosiddetto critico creda di essere aperto, privo di pregiudizi, disposto a essere stupito da un vino, c’è sempre una stratificazione di preconcetti da portare alla luce e da vincere.

Château Le Bon Pasteur

La foto di apertura è di di Tim L. Productions su Unsplash

Fabio Rizzari
Fabio Rizzari

Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato come redattore ed editorialista presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, a cominciare da Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS. È relatore per l’Accademia Treccani.

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