Caso per caso
Vado a pranzo con un amico e ordino un vino obiettivamente spettinatissimo, un Soyl della Cantina Ribelà. La presentazione è preoccupante: colore rosso granato, aspetto del liquido torbidissimo, evidenti depositi scuri filamentosi in sospensione. Un vino naturale che più naturale non si può. Al naso la linea – chiamiamola – stilistica è quella: tisana di erbe amare, tamarindo, Iodosan, con la pungenza tipica di vini dall’acidità volatile non timida (d’accordo, l’acidità all’olfatto non si percepisce sotto forma di etc. etc. etc., ma è per far capire qual è l’atmosfera sensoriale).
Al palato, pur dimostrandosi in effetti piuttosto scalpitante sul piano della corrente acida, è però molto meno fuori sesto, ha una sua rusticissima grazia e soprattutto rinfresca senza scodate aggressive, troppo vegetali o violente.
Insomma, si beve abbastanza bene e fa il suo dovere di buon compagno della tavola.
Con l’innocenza di chi ha la coscienza a posto – omnia munda mundis – e il menefreghismo sopraggiunto con l’età, scrivo un post su Instagram descrivendo il vino e il piacere di averlo bevuto, e fine. Senza le solite mani avanti, i distinguo, le premesse e le attestazioni di equidistanza che in questi casi servono a prevenire le obiezioni dei benpensanti.
Tuttavia, inschivabile, arriva la puntualizzazione del paladino dei vini “puliti, senza difetti, civili”, che rimarca con velato compatimento la mia “deriva inarrestabile”. Come se fossi un talebano vinnaturista qualsiasi.

La generalizzazione conduce all’errore
Ennò. Proprio no. Da almeno un quarto di secolo metto decine di mani avanti, propongo decine di distinguo, faccio decine di premesse e decine di attestazioni di equidistanza. E qui mi tocca ricominciare.
Quindi, un’ennesima volta: la chiave dell’interpretazione corretta e onesta di un vino, e più in generale la chiave di una corretta e onesta interpretazione in qualsiasi altro ambito dell’esperienza umana, è valutare caso per caso. Ogni generalizzazione è a rischio di errori pregiudiziali e deformazioni prospettiche (compresa questa).
Tradotto nel nostro orticello enoico: un vino prodotto da un vecchio contadino a partire da un vitigno autoctono usando i sistemi arcaici tramandati dai suoi avi può essere eccellente, ottimo, buono, scadente o pessimo. Allo stesso modo un vino prodotto da un’azienda ipermoderna le cui quote sono detenute da una multinazionale del cosiddetto beverage, realizzato partendo da reiette uve merlot (però magari sane e mature), nonché affinato nelle reiette barrique (però magari con misura nella presa di legno) può essere eccellente, ottimo, buono, scadente o pessimo.
Valutare caso per caso dovrebbe l’ovvio motto del buon bevitore e del buon critico. E invece ancora oggi, nell’anno del Signore 2025, tocca ribadirlo.