Alla ricerca dei geni perduti: i tesori scartati della Georgia
Ogni vitigno che coltiviamo oggi è il risultato di una selezione millenaria che ha inevitabilmente escluso un patrimonio genetico immenso, spesso per ragioni pratiche ormai superate. Una ricerca internazionale ci riporta in Georgia per svelare come la facilità di radicazione abbia prevalso sulla qualità pura, relegando la vite selvatica ai margini della storia ampelografica. Di fronte alle sfide del cambiamento climatico, la Vitis vinifera sylvestris offre oggi caratteri preziosi per il breeding, invitandoci a riscoprire sapori antichi per salvare la viticoltura di domani.
Il peso delle decisioni millenarie
Scegliere è sempre un atto complesso: prendere decisioni implica conseguenze che, nel caso dell’agricoltura, possono riverberare per millenni. Quando oggi selezioniamo un vitigno, lo preleviamo dal vasto catalogo della biodiversità, lo accudiamo con tecnologie moderne, lo studiamo e lo cloniamo per diffonderlo in territori anche lontanissimi da quello d’origine. Questi “eletti” guadagnano fama, entrano nei disciplinari di produzione e diventano icone del gusto globale. Ma sorge spontanea una domanda: che fine hanno fatto tutti gli altri? Quei genotipi scartati in tempi remoti sono davvero privi di valore?
La realtà è che le esigenze cambiano nel corso della storia. Caratteri che agli albori della civiltà sembravano fondamentali per la sopravvivenza della pianta o la comodità dell’agricoltore, oggi potrebbero risultare irrilevanti. Eppure, quelle decisioni arcaiche hanno lasciato un segno indelebile sulla piattaforma ampelografica attuale. Per capire cosa abbiamo perso, dobbiamo tornare nella “culla” della viticoltura: la Georgia. Qui, circa 8000 anni fa, è iniziato il cammino condiviso tra uomo e vite, un processo che ha portato alla scissione della Vitis vinifera in due sottospecie distinte: la coltivata sativa e la selvatica sylvestris.
L’enigma della propagazione antica
Per indagare queste dinamiche, è nata una prestigiosa linea di ricerca internazionale che unisce la National Wine Agency of Georgia e la Caucasus International University (con il team guidato da David Maghradze) all’Università del Salento, all’Università degli Studi di Milano e al Museum della University of Pennsylvania. L’obiettivo è stato studiare le tecniche di propagazione durante la domesticazione per capire i criteri di quella selezione primitiva.
Un primo mito da sfatare riguarda i semi. Le bacche della vite selvatica, piccole e ricche di vinaccioli dall’alto valore nutrizionale, venivano probabilmente consumate intere. Tuttavia, mentre la vite selvatica eccelle nella riproduzione sessuata, quella coltivata ha perso progressivamente interesse per questo metodo, puntando verso l’apirenia (l’assenza di semi). Gli studiosi hanno evidenziato un dettaglio cruciale: sebbene alcuni semi potessero essere scartati con le vinacce, il contatto con l’alcol durante la fermentazione ne abbatte drasticamente la germinabilità. Questo fenomeno ha agito come un “collo di bottiglia” involontario, limitando la nascita di nuove piante da seme fermentato.
La liana e l’intuizione della radice
È molto più probabile che la domesticazione sia passata attraverso una via vegetativa. Immaginiamo i nostri antenati osservare le liane della vite selvatica arrampicarsi su alberi altissimi: per evitare la fatica e il pericolo di una raccolta sospesa nel vuoto, avrebbero tentato di piegare i fusti portando i grappoli a terra. In quei punti di contatto col suolo, la vite emetteva radici. Da questa osservazione empirica nacque la tecnica della propaggine e, successivamente, quella della talea.
La ricerca ha confermato scientificamente questa ipotesi: la Vitis vinifera sativa possiede una capacità rizogena — ovvero di emettere radici — nettamente superiore rispetto alla sorella selvatica sylvestris. Ecco svelato il criterio di selezione: i nostri antenati non hanno scelto necessariamente l’uva più buona, ma la pianta che si lasciava moltiplicare più facilmente. Abbiamo quindi ereditato vitigni selezionati per la tolleranza dei semi all’alcol (poco utile) e per l’attitudine alla radicazione (oggi superflua, dato che usiamo l’innesto).
Il futuro ha bisogno del passato
Questa consapevolezza apre scenari affascinanti. Se consideriamo che i vini ottenuti dalla Vitis vinifera sylvestris mostrano caratteristiche organolettiche sorprendenti, ci rendiamo conto di non aver valorizzato appieno il potenziale di queste piante. Oggi le priorità sono cambiate: non cerchiamo più la facilità di radicazione, ma la resistenza a nuovi stress abiotici, come il cambiamento climatico, e biotici, come la Xylella fastidiosa.
Per affrontare le sfide del domani, occorre fare un passo indietro, tornando idealmente tra i vigneti del Caucaso. In Georgia, tra un calice di Rkatsiteli e uno di Saperavi, capita di assaggiare vini prodotti con uve selvatiche e di restare colpiti dalla loro attualità. Quei caratteri “scartati” millenni fa sono i tesori genetici che dobbiamo recuperare e inserire nei moderni programmi di breeding. Il sommelier e il ricercatore del futuro dovranno guardare a questo passato ancestrale non con nostalgia, ma come a una riserva di biodiversità indispensabile per continuare a riempire i nostri calici.
Bibliografia e fonti
Maghradze D. et al. The germinability of fermented seeds could represent an inadvertent selective bottleneck during grapevine domestication. (Paper submitted).
Maghradze D. et al. (2025). Differences in rooting ability between wild and cultivated Vitis vinifera. OENO One.
Maghradze D. et al. (2021). Comparison between the Grape Technological Characteristics of Vitis vinifera Subsp. sylvestris and Subsp. sativa. Agronomy, 11, 472.
Nota biografica sugli autori della ricerca
Il lavoro è frutto della collaborazione tra Laura Rustioni (Università del Salento), Osvaldo Failla (Università degli Studi di Milano) e David Maghradze (Caucasus International University), supportati da un team internazionale di ricercatori.
