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Vita da Sommelier
26/11/2024
Di Redazione AIS

Sommelier vs algoritmi: l’IA sta davvero cambiando il servizio del vino?

In questa inchiesta firmata da Julia Larson per Wine Spectator, il mondo della sommellerie si interroga sull’impatto dell’IA. Se per alcuni è un prezioso alleato burocratico che libera tempo per la sala, per altri rappresenta una minaccia alla narrazione emotiva del vino. Tra entusiasmi pragmatici e resistenze filosofiche, ecco come la tecnologia sta riscrivendo le regole dell’ospitalità.

L’intelligenza artificiale non è più solo una questione da ingegneri della Silicon Valley: si sta insinuando silenziosamente nelle parti più umane della nostra vita, inclusa la cena al ristorante. Julia Larson, su Wine Spectator, apre un dibattito affascinante intervistando nove sommelier e direttori di sala per capire se questa tecnologia sia un semplice trucco pubblicitario — come i menu generati da ChatGPT o i finti clienti creati per testare gli chef — o uno strumento reale di lavoro. La risposta, come spesso accade nel vino, è complessa: l’IA è ovunque, ma il suo valore dipende da chi la impugna.

L’acceleratore di idee e il rischio della pigrizia mentale

Per molti professionisti, l’IA è diventata una sorta di “bignami” digitale. Kisong Mun, sommelier al The Dearborn di Chicago, ammette che la tecnologia non ha cambiato il modo di acquistare vino, ma si rivela promettente per la formazione dello staff. È utile per ottenere risposte rapide e compilate, magari per confrontare l’impatto climatico nella Russian River Valley rispetto alla Côte de Nuits. Tuttavia, Mun lancia un avvertimento: affidarsi troppo a questi strumenti rischia di rendere i nostri cervelli pigri, ostacolando quella comprensione profonda che nasce solo dalla sintesi attiva di varie fonti. Fortunatamente, scherza Mun, l’IA non può (ancora) assaggiare il vino, salvando così il suo posto di lavoro.

Sulla stessa linea d’onda c’è June Rodil, Master Sommelier e CEO di Goodnight Hospitality a Houston. Per lei, l’IA è un acceleratore, non un sostituto. Scrivere note di degustazione, documenti di formazione o post sui social media può diventare ripetitivo; l’algoritmo aiuta a creare una bozza iniziale, a “testare” alcune tendenze o a sbloccare il processo creativo. Ma il tocco finale deve rimanere umano: Rodil raffina ogni testo per adattarlo al suo “palato” e al suo ritmo linguistico. L’obiettivo? Liberare tempo per accendere connessioni umane reali con il team e gli ospiti. Anche Kyle Davidson, direttore delle bevande a Chicago, pur usandola poco, ammette che è imbattibile per il brainstorming di nomi originali per i cocktail.

L’effetto Silicon Valley e la minaccia al rapporto umano

C’è chi beneficia dell’IA in modo indiretto, puramente economico. Rachel Coe del ristorante Quince a San Francisco racconta di un vero e proprio boom: trovandosi nell’epicentro delle aziende tecnologiche, molti dei suoi ospiti lavorano nel campo dell’IA. Questi clienti, grazie al benessere economico del settore, escono più spesso e sono disposti a spendere cifre importanti per grandi vini.

Tuttavia, il rovescio della medaglia è preoccupante. Alessandra Ameglio di Mattos Hospitality a New York teme che gli ospiti inizino a rivolgersi all’IA per i consigli sul vino piuttosto che interagire con un sommelier, replicando quanto già accade con certe app di recensioni. L’IA, avverte la Ameglio, non potrà mai presentare un piccolo produttore sconosciuto privo di impronta digitale online; quell’esperienza appartiene solo all’umano. Chris Farrell di Indienne a Chicago rincara la dose: vedere clienti che fotografano la lista dei vini per darla in pasto a un chatbot invece di parlare con il sommelier è un segnale allarmante. Questo comportamento mina la costruzione di quel rapporto di fiducia che è l’essenza stessa dell’ospitalità. Anche Diego Avitia nota che, sebbene tradurre o ricercare vini tramite app renda il tutto più accessibile, si perde la magia del racconto personale.

La salvezza burocratica: meno ufficio, più sala

Dove l’IA trova consensi unanimi è nel “dietro le quinte”. Diego Avitia e Rachel Coe vedono un enorme potenziale nella semplificazione dei compiti amministrativi, come il tracciamento dell’inventario, l’inserimento dei dati nel sistema di cassa o la creazione di schede tecniche per i nuovi vini al calice. Attività tediose che, se esternalizzate all’algoritmo, permettono di concentrarsi sull’esperienza dell’ospite.

Chris Farrell sottolinea l’utilità dell’IA come correttore di bozze: scovare errori di ortografia o incongruenze negli accenti sulle carte dei vini è un compito perfetto per la macchina, a patto di controllarne sempre l’operato. Ren Neuman del Printemps di New York riassume perfettamente questa filosofia: usare l’IA per organizzare informazioni complesse o riassumere lunghe catene di email significa guadagnare tempo prezioso da passare in sala. Assaggiare, insegnare e vendere sono parti del lavoro che non possono essere automatizzate. Madison Pettit aggiunge che l’IA l’ha aiutata a generare immagini per i menu o a pulire i testi delle presentazioni, rendendola più efficiente e precisa.

Lo scettico: l’uva non matura con l’algoritmo

In chiusura, Larson dà voce a chi rimane radicalmente scettico. Leo Bayless-Hall del Rolo’s nel Queens non usa mezzi termini: l’impatto dell’IA è nullo. Nessun modello linguistico o apprendimento profondo cambia il momento in cui l’uva diventa abbastanza matura per trasformarsi in vino. Forse l’IA aiuterà a scrivere etichette di marketing migliori, ma per ciò che finisce nel bicchiere, di fronte ai nostri occhi, abbiamo solo il nostro corpo e la nostra mente per giudicare. Per Bayless-Hall, l’IA non significa nulla per chi conosce l’impatto profondo di una bottiglia condivisa tra persone reali.

Redazione AIS
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