L’incantesimo delle viti ad alberello: quando la fatica diventa magia nel calice
Un reportage che esplora la resistenza delle viti allevate ad alberello, considerate obsolete dall’industria moderna ma venerate dai puristi. Attraverso le voci di vignaioli californiani e l’eco della tradizione italiana, scopriamo perché queste piante contorte e nodose, impossibili da gestire con le macchine, rappresentano l’ultima frontiera della qualità e della resilienza agronomica.
Immaginate di camminare in alcune zone remote della Napa Valley, o magari tra le terre aride di Lodi, in California, e di imbattervi in figure che ricordano dei vecchi saggi: sono viti nodose, contorte, piantate sessanta o ottant’anni fa, che si ergono fiere senza il sostegno di fili o pali. Crescono libere, quasi fossero cespugli selvatici. Per i viticoltori moderni sono un incubo logistico, ma per chi ne subisce il fascino rappresentano una forma di magia viticola.
In un recente articolo pubblicato su Wine Enthusiast, la giornalista Kate Dingwall ci porta alla scoperta di quello che noi italiani conosciamo bene come sistema ad alberello (in inglese head-trained o goblet vines). La premessa è onesta e brutale: economicamente non hanno alcun senso. Steven Rasmussen, proprietario di Palisades Canyon a Napa, lo ammette senza giri di parole: “non è la scelta migliore per il portafoglio, ma produce semplicemente un vino migliore“.
Queste viti, potate in modo che i tralci si aprano verso l’esterno come la coppa di un calice, sono basse e robuste. Per molti produttori sono un autentico “dolore”, per usare un eufemismo: richiedono tempo, sono costose e imprevedibili. Scott Kirkpatrick della Dancing Crow Vineyards racconta di lavorare con lo zinfandel ad alberello quasi alla cieca: non può campionare agevolmente le uve e spesso deve attendere una maturazione precoce per bilanciare le varietà più lente presenti nel vigneto. Eppure, ammette che quando tutti gli elementi si fondono, il risultato è qualcosa di irripetibile.
La storia di queste viti negli Stati Uniti ha un sapore fortemente italiano. Nel 1871, a Calistoga, fu uno scozzese a piantarle, ma vent’anni dopo subentrò l’immigrato italiano Domenico Barberis. Durante il Proibizionismo, mentre ufficialmente produceva vino sacramentale (e ufficiosamente riforniva il mercato clandestino), le sue viti sopravvissero. Tuttavia, nel corso dei decenni, la modernità ha imposto la dittatura del filare ordinato, guidato dai fili di ferro, facile da vendemmiare a macchina. Le vecchie viti ad alberello di petite sirah o di zinfandel sono state quasi tutte espiantate.
Oggi, però, assistiamo a una controtendenza guidata da produttori “romantici” e pragmatici al tempo stesso. Alla Dancing Crow, ad esempio, si coltivano ancora vigneti piantati prima del Proibizionismo che ospitano ben 24 varietà diverse, tra cui alicante bouschet e cabernet sauvignon. Kirkpatrick sottolinea come questo approccio fosse tipico dei nostri emigrati del 1901: arrivavano in una terra sconosciuta, senza vivai certificati dietro l’angolo, e piantavano tutto ciò che trovavano per proteggersi dai rischi. Se una varietà falliva, l’altra sopravviveva. Inoltre, era un’usanza molto italiana quella di piantare uve bianche in mezzo alle rosse: portava fortuna, si diceva, ma soprattutto serviva a garantire l’acidità nel vino finale.
Un aspetto affascinante che l’articolo originale tocca, e che ci riguarda da vicino, è il ruolo dell’Italia come custode di questo sapere. Mentre in California si riscopre l’alberello, i maestri potatori italiani Simonit & Sirch (celebri consulenti friulani per tenute leggendarie come Château d’Yquem o Latour) utilizzano proprio queste vecchie viti americane come “aule a cielo aperto” per insegnare alle nuove generazioni i benefici di una potatura rispettosa.
Se in America l’alberello è una scelta di nicchia, nel resto del mondo è spesso una necessità storica e climatica. L’autrice cita la Puglia, dove il primitivo ad alberello è parte integrante del paesaggio: Marzia Varvaglione, di Varvaglione 1921, spiega come il sistema radicale profondo di queste piante permetta loro di prosperare in climi caldi e secchi, offrendo una resilienza alla siccità che i sistemi moderni faticano a eguagliare. Lo stesso accade nel sud della Francia, in Spagna con la garnacha e il monastrell, o nelle Azzorre, dove le viti sono protette dai venti atlantici da muretti a secco, in una viticoltura che definiremmo “eroica”.
Il prezzo da pagare per questa qualità è altissimo: tutto deve essere fatto a mano. Non puoi passare con un trattore per cimare o vendemmiare. Rasmussen paragona la gestione di un vigneto a spalliera al gioco della dama, dove pensi una o due mosse avanti; gestire un alberello, invece, è come giocare a scacchi: devi prevedere le conseguenze di ogni taglio tra cinque o dieci anni.
Tuttavia, in un’epoca segnata dal cambiamento climatico, queste “vecchie signore” offrono vantaggi inaspettati. La loro chioma aperta garantisce un passaggio d’aria che riduce drasticamente il rischio di malattie come l’oidio, permettendo di limitare i trattamenti. Le radici profonde pescano nutrienti dove le viti giovani non arrivano, regalando vini di una complessità superiore. C’è, infine, un senso di responsabilità: possedere queste vigne significa essere custodi della storia. Come dice Kirkpatrick: “non voglio che queste viti spariscano durante il mio turno di guardia. Se onori i desideri della vigna, lei ti ricompenserà“.