Il primitivo di Vigna Liponti
C’è una strana e innaturale nebbia mattutina, qui dove tra poche settimane il caldo, con l’eterno sottofondo del canto delle cicale, martellerà i primi terreni di argilla rossa che ancora si mischiano ai calcari degli ultimi contrafforti della Murgia meridionale, e il sole irradierà i muretti a secco le cui pietre bianche riverbereranno la sua luce abbagliante.
Un terreno di forma triangolare e di 8 “quartieri”
Una stele in pietra sembra quasi voler fare capolino tra la foschia. Guarda alla strada padronale che le passa accanto, come a volersi rivolgere al viandante. Proprio come un’altra e più famosa stele, quella delle Termopili, rammenta di fatti accaduti 2700 anni fa. In entrambi i casi si parla di Storia. Certo, in Grecia di guerre dell’antichità ormai entrate nel mito. In Puglia, a Gioia del Colle, invece, di uno dei vitigni simbolo del tacco d’Italia: il primitivo. Perché è esattamente qui, in questo luogo, in questo terreno di forma triangolare e di 8 “quartieri” di estensione (equivalenti a poco più di un ettaro), che le fonti ufficiali e le ricerche risalenti a un secolo fa ne identificano l’arrivo in Italia e la sua prima coltivazione. Ed è qui che mani e occhi appassionati e lungimiranti hanno lanciato un progetto – e un vino – pregno di storia e significato.
Un viaggio che parte dalla Croazia
Una storia che parte dai Balcani e che incontra spesso il termine “fortuna” nel suo lento scorrere del tempo. È noto con certezza che il primitivo, oltre che col californiano zinfandel, condivide lo stesso DNA anche del crljenak kastelanski. Ciò che è meno certo sono il dove e il come sia arrivato dalla Croazia. A dipanare i dubbi sul dove arriva nel 1799 un giovane sacerdote (precisamente primicerio) gioiese, Francesco Filippo Indellicati (1767-1831). Uomo colto e curioso, grande conoscitore di botanica e agronomia, studia le viti che in maniera disordinata, come si usava fare all’epoca, crescono nei terreni attorno a questa cittadina che oggi conta poco meno di 27.000 abitanti e che ospita un castello normanno-svevo risalente al IX secolo.
Un vitigno adatto alle terre rosse
Qui compare per la prima volta il termine “fortuna”. Indellicati, in una zona denominata Liponti in contrada Terzi, nota un vitigno che, per usare le sue stesse parole, “si adattava meglio alle terre rosse e dava prodotto precoce, abbondante e ottimo”. Opera una selezione clonale ante litteram e impianta un vigneto. È lui, è il primo. A confermare l’origine ipotizzata dal primicerio gioiese saranno gli studi del prof. Musci della Facoltà di Agraria dell’Università di Bari, poi pubblicati nel 1919. Ed è un vitigno fortunato, il primitivo: germoglia tardi, così da evitare le gelate primaverili, e matura presto (primativo, nomen omen), in modo da non incontrare le piogge e i marciumi autunnali. Ma la storia, si sa, spesso si incanala tra bivi e anse che la conducono su altri sentieri. Arrivano la fillossera, la prima meccanizzazione in agricoltura, due guerre mondiali. E, mentre nel 1881 il primitivo arrivava a Manduria (ma questa è un’altra, affascinante, storia…), del vigneto del primicerio, scomparso sei anni dopo l’Unità d’Italia, si perde traccia.
Di nuovo quel terreno
La storia, però, vive anche di corsi e ricorsi. L’anno è il 1910. Ancora una volta un gioiese, ancora una volta un giovane poco più che ventenne. Si chiama Vincenzo Benagiano l’uomo che acquista quel terreno di forma triangolare e di 8 “quartieri” di estensione. Quaranta anni esatti dopo impianta una nuova vigna di primitivo. Sebbene il 1950 sia il millesimo in cui un po’ più a nord, ad Andria, l’azienda Rivera (in questo è apripista) imbottiglia per la prima volta il Rosso Stravecchio della Casa (nero di troia e montepulciano) che due decadi dopo diventerà Il Falcone, sono anche gli anni in cui il vino rosso in Puglia ha solo due destini: spedito per “tagliare” i vini del nord oppure consumato per auto sussistenza.
Produrre vino per spirito di servizio
Ed è qui che ricompare la parola “fortuna”. La pronuncia un altro Vincenzo Benagiano. Classe 1960, odontoiatra di professione, forte somiglianza con il personaggio Guido Necchi del film “Amici Miei”, sorriso e savoir-faire spontanei e disinteressati – nonché corsista AIS -, ci accoglie nel suo studio e ci racconta il perché della scelta di questo termine che nel corso della conversazione verrà sottolineato più volte: “Mi ritengo fortunato perché né mio nonno, né successivamente mia zia a cui lo aveva donato, e che non ne conoscevano il valore storico, hanno deciso di vendere quel terreno quando invece, in tempi in cui l’agricoltura e la viticoltura non avevano l’attenzione che hanno oggi, potevano tranquillamente farlo. Per questo motivo, io che dal 2008 ho quel terreno per volere di mia zia perché porto il nome di mio nonno, mi sono approcciato alla produzione di vino per spirito di servizio”.
La Doc Gioia del Colle
Sì, perché, dopo decenni trascorsi nell’inconsapevolezza del tesoro storico di famiglia, e mentre nel 1987 veniva istituita la Doc Gioia del Colle (ne fanno parte 16 Comuni), nel 2004 l’amministrazione comunale del sindaco Mastrovito pone la stele commemorativa della “culla” del primitivo. “È in quel momento – sottolinea il vignaiuolo-dentista – che la comunità inizia a interessarsi alla storia e al luogo di nascita del nostro primitivo. Ed è allora che subentra lo spirito di servizio. Ti chiedi: o ti disinteressi, e magari monetizzi la proprietà, oppure la curi e la mantieni come un monumento. La decisione è stata quasi scontata”.
La Storia dentro il calice
Rieccola la fortuna. Quella di essere amico d’infanzia dell’agronomo, e associato del CREA di Turi, Gianvito Masi. Con l’enologo Benedetto Lorusso è una squadra a tre che nel 2010 impianta un nuovo vigneto. E nel 2017, dopo aver fondato l’azienda Vigna Liponti (in uno spirito di continuità già intestata a sua figlia Stefania), arriva la prima vendemmia imbottigliata di un Primitivo Gioia del Colle Doc dal nome, nel dialetto del posto, che più evocativo non si può: “Nasciddò”, nacque qui. Due anni di acciaio e due di affinamento in bottiglia – “niente legno perché gli toglierebbe l’anima” –, 60 ql di resa per ettaro, 4000-5000 bottiglie prodotte. È a tutti gli effetti Storia dentro il calice.
Sei annate e molte idee per il futuro
Appena sei annate prodotte finora (non la 2018, troppe piogge da fine luglio) e tante idee per il futuro. A cominciare da nuovi locali nei sotterranei della palazzina che ospita lo studio dentistico, sia per lavorare le uve e far affinare il vino, sia per realizzare un luogo di degustazione. “Ma che sia nello spirito dei ‘vin de garage’ – chiarisce Benagiano –, di quelle cantine che si trovavano nei nostri paesi qualche decennio fa e che ho visto da bambino”. Luoghi che ospitavano personaggi come quel tale (è una storia vera!) che al mattino era comunista e la sera, dopo qualche bicchiere di vino, osannava il duce.
È il nuovo capitolo di una storia iniziata con un canonico poco più che ventenne che spalancò le porte della conoscenza su uno dei vitigni principe della Puglia. Come quel sole che, una volta dissolta la foschia, illumina un terreno triangolare, i suoi muretti, le sue viti. E quei grappoli che sapranno emozionare.
DEGUSTAZIONE ANNATA 2020
Alcol 14.5%
Manto carminio di notevole compattezza, con intarsi granato e bella luminosità. Impatto olfattivo sin dal principio contraddistinto da ciliegia matura, amarena e prugna. La rosa appassita anticipa un vegetale di rosmarino e radice di liquirizia. Una delicata nota di pepe nero e poi, dopo una paziente attesa, accenni balsamici di macchia mediterranea. L’assaggio è succoso e materico, il tannino è levigato. Colpisce la vena di freschezza che accompagna il sorso potente sino a un finale che si perde lento su ritorni di arancia rossa.
Abbinato con strascinati al ragù e brasciole.