Alessandro Bilotta: di vino, Dylan Dog e Mercurio Loi
Chi conosce Alessandro Bilotta, sa che è un un prolifico sceneggiatore e un fumettista di lungo corso. Il suo nome è legato indissolubilmente ad alcune storie della serie Dylan Dog, e della saga Il Pianeta dei Morti in particolare, di cui è creatore e curatore. È inoltre ideatore e autore della serie Mercurio Loi, un professore universitario che, assistito dal giovane Ottone, indaga sui misteri della Roma pontificia del 1826.
Meno nota è la passione di Alessandro per i vini, di cui ha lasciato spesso traccia nel suo Mercurio Loi, e in un albo di Dylan Dog del 2020: Una pessima annata. Lo abbiamo intervistato.
Hai una grande passione per il vino. Com’è nata? Perché ti piace tanto?
È una tradizione di famiglia, dei miei genitori in particolare. Papà era molto attento alle bottiglie che sceglieva, si documentava su un grande libro che aveva ricevuto per regalo a Natale e che trovavo sempre sul tavolo del salone. In un secondo momento mia madre ha perfino fatto un percorso di studi e adesso è sommelier.
In ‘Una pessima annata’ si evince la tua conoscenza in materia dal linguaggio dei master sommelier coinvolti, molto appropriato. Li hai anche tratteggiati con toni altezzosi, e dotati di un vocabolario netto, implacabile. Questo dipende dalle necessità narrative dell’albo, ma c’è forse anche un po’ di ironia? Come dovrebbe essere per te il sommelier?
Mi piacerebbe che il sommelier, così come chiunque più in generale si formi una cultura superiore su qualcosa, abbia un grande desiderio di condividere e la grande qualità di non prendersi sul serio.
Quando si esamina un vino si tende a distendere la bottiglia sul tavolo dell’autopsia, per vedere cosa c’è dentro. Ci sono chiavi più intriganti per parlare dell’argomento, ovviamente, ma il rischio di esagerare, in una maniera o nell’altra, c’è sempre. Come vorresti che si parlasse di vino?
Su questo non transigo, mi piace l’idea dell’autopsia, che si parli di una bottiglia in modo molto serio. Solo se poi a questo segue il piacere reale di berla. Insomma andare a fondo negli argomenti per sapersi poi godere anche la superficie.
Negli studi di teoria letteraria, il posto che spetta all’autore è argomento controverso. Per gli strutturalisti l’intenzione dell’autore non era pertinente per definire il significato di un’opera. Rabelais, Proust, e Borges viaggiavano su binari vicini. Potremmo applicare lo stesso dibattito ai grandi vini? Il regista Jonathan Nossiter cita il caso dei vini di Chinon di Charles Joguet: scomparso nel 1997 senza eredi, i vini delle annate successive – a suo parere – sono buone ma non eccellenti; mancano del tocco d’artista di Charles. In un grande vino è la mano del produttore a emergere ed essere riconoscibile o è l’identità del vino a prevalere sempre? Cosa rende un vino, un grande vino?
Penso che la mano dell’enologo possa realmente fare la differenza, rendere grande un vino. Il giudizio ossessivo tra annate ottime ed eccellenti lo lascio però ad altri, forse a chi ha avuto il desiderio di saperne più di me.
L’olfatto è il senso più sottovalutato, eppure l’epidemia di Covid ha contribuito a riportarlo in auge, anche perché da esso dipende la maggior parte delle percezioni legate al gusto. Perdere l’olfatto non è un guaio solo per un sommelier, ma per chiunque. Potremmo dire che perdere l’olfatto equivale a perdere consapevolezza della realtà che ci circonda? Potrebbe essere il tema per una sceneggiatura.
È uno spunto davvero interessante e un tema che sarebbe bello approfondire. Degustare un piatto, un vino, ma anche una birra sono tra i piaceri che ritengo più importanti. Qualcosa che ce ne priva è un mostro che si presenta con il biglietto da visita peggiore.
Con il tuo Mercurio Loi hai saldato più di una volta il legame tra letteratura, cibo e vino. Perché secondo te il legame tra cibo, vino e cultura in generale ricorre così spesso nel corso dei secoli? E perché è rimasto sempre saldo?
Sono degli elementi strettamente connessi tra loro. Il cibo ha a che fare con il luogo su cui poggiamo i piedi o abitiamo, nascere o fermarsi in un punto del mondo è frutto di scelte fondamentali dell’esistenza e la letteratura spesso è il racconto di tutto questo, che in buona parte potremmo definire il senso del vivere.
Mercurio una volta esclama: ‘Il pensiero logico lasciamolo ai primati!’. Applicheresti lo stesso approccio degustando un vino? La logica va messa da parte?
Le uniche questioni su cui non si può mettere la logica da parte sono le opere frutto dell’arte umana. Se ne può godere appieno, secondo me, solo interpretandole e ragionandole. Anche il vino fa parte di queste ovviamente.
L’albo numero cinque è dedicato esplicitamente all’esperienza gustativa. Tutto l’albo contiene una riflessione sul complesso atto del mangiare. Sono così importanti per te il cibo e il vino?
Sì, come dicevo prima. Sono tra le prime e più importanti esperienze della vita.
Il legame tra cibo e memoria nell’albo è evidente. Senza scomodare per l’ennesima volta Proust, hai dei piatti, e dei vini, che ti riportano a momenti passati?
Amo particolarmente i tortellini, con qualunque condimento. Mi ricordano anche l’infanzia, mi ricordo quando mia nonna li preparava, ma sono un piatto che amo indipendentemente da questo, che trovo geniale per la sua invenzione e lavorazione. Il Barbera d’Asti mi riporta invece a tanti inverni passati a Torino e provincia, in compagnia di un caro amico.
La Roma di Mercurio è la Roma papale, la Roma del XIX secolo. Le strade traboccano di osterie e dei piatti tipici della tradizione. È una cucina di carne, a tratti truce, fatta di rigaglie, code, zampette, ma anche di generosi primi fumanti, a base di legumi e verdure. Cosa ne pensi? Dice qualcosa anche dei suoi abitanti?
Come tutti i cibi, anche quelli che citi raccontano perfettamente i romani. Nel mangiare queste cose c’è un senso di sfida e allo stesso tempo di ironia, due caratteristiche che in un romano vanno spesso a braccetto e possono essere irritanti, aggressive. Proprio come i piatti di cui stiamo parlando.
Roma è la tua città. Ti piace la cucina della tua regione? Hai dei vini a cui l’abbini regolarmente?
Amo vini di altre regioni, ma bevo con piacere anche quelli laziali. Tra le mie scelte più frequenti, Mater Matuta di Casale del Giglio, Paterno di Trappolini, Latour a Civitella di Sergio Mottura e Donna Adriana di Castel de Paolis.
Roma è anche sede di Porthos, una roccaforte dell’approfondimento sul tema del vino naturale. Che idea hai dell’aggettivo naturale quando applicato al vino?
L’aggettivo naturale applicato al vino e al cibo lo trovo abusato. Quello che mangiamo è da sempre frutto di una lavorazione, di un intervento dell’uomo. Cercare una certa purezza mi sembra un obiettivo ambizioso, se non addirittura privo di significato.
Ti piacciono i vini del Lazio? E nel resto d’Italia quali denominazioni guardi?
Alto Adige/Sudtiroler, Franciacorta, Friuli Colli orientali, Barbera d’Asti, Barolo, Recioto della Valpolicella, Chianti, Primitivo di Manduria, Negroamaro di terra d’Otranto, Vermentino di Gallura.
E all’estero?
Riesling tedesco, Bourgogne AOC, Champagne AOC, Napa Valley.