Andrea Bacci, l’antesignano del turismo enogastronomico
Andrea Bacci, chi era costui? Un genio del Rinascimento potremmo definirlo. Un genio poliedrico. Nacque nel 1524 a Sant’Elpidio a Mare, comune marchigiano in provincia di Fermo. Morì a Roma il 25 ottobre 1600. Quest’anno si celebra il cinquecentenario della sua nascita. Il padre era un ingegnere impegnato nella costruzione della basilica di Loreto. Sua madre, Riccadonna Paleologo, una discendente dell’ultimo sovrano di Costantinopoli. Si laureò in medicina. Ci provò a fare il dottore, a Serra San Quirico. Non era quella la sua strada. Grazie a Modesto Cassini, concittadino e archiatra pontificio di Paolo V, ottenne la cattedra di botanica presso l’archiginnasio di Roma. Favorito dal Cardinal Colonna, nel 1558 diede alle stampe la sua prima opera, Sul Tevere. Ma fu nel 1571, col De Thermis, che arrivò il successo. Un trattato fondamentale nello studio delle proprietà curative delle acque e delle loro applicazioni terapeutiche. Tanto crebbe la sua fama che divenne archiatra pontificio di Sisto V e incluso nel Reggimento Capitolino. Da allora si firmerà Andrea Baccius, philosophus, medicus elpidianus et civis romanus.
Un trattato di enologia
Avanti negli anni si dedicò al più grande trattato di enologia dai tempi dei classici latini fino a noi. Lo pubblicò nel 1595, è il De Naturali Vinorum Historia, opera monumentale in latino divisa in sette libri sulla storia del vino, la coltivazione dell’uva, le sue proprietà curative e controindicazioni, i vitigni conosciuti e l’abbinamento cibo-vino, con citazioni che spaziano dalla Naturalis Historia di Plinio al De Re Rustica di Columella, passando per numerosi altri autori fondamentali per la conoscenza della storia enologica. I primi due libri forniscono informazioni di carattere introduttivo. Nel primo viene trattato il vino secondo gli studi degli antichi, con una serie di citazioni e confronti sul modo di coltivare, vendemmiare e vinificare. Nel secondo si discute dei vari vini, caldi, freddi, generosi, deboli, dolci, del loro colore e della loro consistenza in relazione all’esposizione dei vitigni, della fertilità del terreno e dell’influsso dei fenomeni atmosferici. Il terzo tratta delle capacità nutritive del vino, sia per i sani che per i malati, e degli effetti dell’ubriachezza. Nel quarto libro sono trattati i pasti comuni del mondo romano a confronto con quelli dell’epoca dell’autore. In particolare, occupandosi delle abitudini a tavola, il Bacci – come spiegato da Giovanni Martinelli, Presidente dell’Academia Elpidiana di Studi Storici in un suo scritto – dice che per gli antichi mangiare una sola volta significava fare la sola cena serale, era quello il pasto principale che non doveva mai essere saltato. Ma è più salutare fare uno o due pasti al giorno? Come Ippocrate, il Bacci propende per la seconda opzione: il fare un solo pasto inevitabilmente ne provoca un altro perché dopo un intervallo di digiuno di ventiquattro ore, essendo lo stomaco ormai vuoto e sfinito, di solito in quell’unica cena lo si riempie in misura assai maggiore e in maniera più dannosa di quanto accadrebbe se si mangiasse in due momenti diversi. E conclude che è più salutare mangiare due volte al giorno, pranzare il mattino e cenare la sera.
Il legame tra prodotto e territorio
Negli ultimi libri Bacci elenca e descrive oltre 900 vini delle regioni e località italiane, e anche del mondo fino ad allora conosciuto, anticipando il legame tra prodotto e territorio. Nel quinto libro nello specifico sono prese in esame le isole e l’Italia meridionale e centrale, con attenzione alla zona del Piceno, sua terra natale. “Non bisogna dimenticare quanto si produce in prossimità del litorale piceno nell’agro di Cluana, mia patria, che in tempi molto recenti ha preso il nome di Sant’Elpidio suo santo tutelare. Assai fertile è la campagna che si estende molto ampia dal fiume Tinnio (oggi Tenna) al di là del Cluento (oggi Chienti), la quale […] produce vini famosissimi sia per loro abbondanza che per la loro qualità”. Ed è proprio parlando dei vini del Piceno che Bacci anticipa la storia dello spumante, citandolo un centinaio di anni prima di Dom Pérignon: un vino di media sostanza, di colore aureo tendente al fulvo, con profumo di musco, con bollicine che saltellano dalla coppa in modo assai piacevole, da bere a tavola una sola volta prima di pranzo. A tal proposito si potrebbe citare anche quel passo del primo libro in cui Bacci descrive l’arte di taluni di servirsi del luppolo nella fermentazione per fare vini frizzanti e dolci. Delle campagne ascolane scrive che si producono anche rossi generosi non cotti, aromatizzati con uva moscatello o Malvasia, ed è nella presentazione dei territori di Ripatransone, Offida e Cupra che il Bacci si lascia prendere la mano dalla storia delle tre città e nulla riferisce dei vini se non che le fertili campagne e le valli abbondano di oliveti e vigneti. Quanto a Macerata, sorta sulle rovine di Helvia Recina, il Bacci ci narra che la città eredita la tradizione dell’uva che Plinio chiamava Elvia, splendente di un colore rosso porpora consfumature tra il bianco ed il nero, che ancor oggi si coltiva. Sotto Ancona cresceva un’altra tipologia di uva, la cosiddetta Pretuziana, da cui si sarebbe spillato un vino limpidissimo, che nulla ha da invidiare ai Chiarelli e ai Centuli che si vendono a caro prezzo a Ripa Romana. Rispetto all’agro di Pesaro operano, scrive l’autore, tutte le condizioni sia naturali che umane necessarie a favorire la produttività, in virtù dell’altissima protezione dei duchi di Urbino: “I vini ottengono comunemente il pieno gradimento negli enopoli veneti non per l’abbondanza, ma per la schiettezza e la buona preparazione”. Oltre ai vigneti sembra che qui in quegli anni vi fiorissero ameni giardini e frutteti e che si producesse in abbondanza una qualità di fichi dei quali forniscono per il loro diletto non soltanto le tavole delle città vicine, ma anche quelle delle Venezie e le residenze prelatizie più importanti di Roma. Leggendo l’opera, quindi, molte varietà che Bacci cita, quali trebbiano, malvasia e moscatello volendo restare nelle Marche, le ritroviamo ancora oggi, altre non sapremmo identificarle. Ma ciò che conta è il legame che in quest’opera ha saputo creare tra vino e territorio. Bacci lo ha fatto sul finire del Cinquecento. Quattro secoli più tardi siamo arrivati noi con l’istituzione delle Denominazioni di Origine.