Bambini in cantina: sì o no? La parola a una giornalista (e genitore)

In un articolo per il San Francisco Chronicle, la giornalista Jess Lander riapre l’annoso dibattito sulla presenza dei bambini nelle cantine. Se in passato criticava le restrizioni imposte alle famiglie, oggi, da madre, ha compreso la difficoltà di conciliare una degustazione attenta con un bambino piccolo. La sua conclusione è netta: cantine e birrifici sono diversi, il primo è un luogo di approfondimento, il secondo un momento puramente sociale.
“Cane o bambino?”. Inizia con questa domanda spiazzante, rivolta a un’amica arrivata in una cantina della Napa Valley con il figlio neonato, la riflessione della giornalista Jess Lander del San Francisco Chronicle. Se fosse stato un cane, sarebbe potuto entrare. Trattandosi di un bambino, la coppia fu respinta a causa di una policy che vietava l’ingresso ai minori di 21 anni. Questo e altri aneddoti simili avevano spinto la Lander, nel 2022, a scrivere un articolo in cui criticava la crescente tendenza delle aziende vinicole a chiudere le porte alle famiglie, una pratica diffusasi durante la pandemia e mai del tutto abbandonata.
Oggi, però, lo scenario sta cambiando di nuovo. A causa di un calo delle vendite e dell’affluenza nelle sale di degustazione, molte cantine stanno cercando nuovi modi per attrarre visitatori. Stanno abbassando i prezzi, offrendo bevande analcoliche e, soprattutto, reintroducendo esperienze pensate per le famiglie.
Viene da chiedersi, a questo punto, perché le cantine non risolvano il problema alla radice, predisponendo aree dedicate e personale qualificato per i bambini, trasformando un potenziale disturbo in un servizio. La realtà, però, è più complessa. Al di là dell’ingente investimento economico per creare spazi sicuri, entrano in gioco enormi questioni di responsabilità legale e assicurativa: una cantina rimane un’azienda agricola con rischi intrinseci, difficilmente compatibili con la custodia di minori. A questo si aggiunge una precisa scelta di posizionamento: moltissime aziende hanno costruito la loro immagine su un’esperienza di tranquillità e relax per un pubblico adulto, e la presenza di aree gioco entrerebbe in diretto conflitto con questa identità.
Dall’idillio alla realtà
“Negli ultimi due anni”, scrive la Lander, “ho portato mio figlio a più di una dozzina di degustazioni”. All’inizio, quando era un neonato che dormiva pacificamente nel passeggino, tutto filava liscio. Poi, intorno ai dieci mesi, ha iniziato a camminare. “Tutto è cambiato”, ammette. Da quel momento, nessuna degustazione è stata più la stessa. Impossibilitata a tenerlo fermo, si è ritrovata a inseguirlo per la cantina insieme al marito, alternandosi per evitare che si mettesse in pericolo, disturbasse gli altri ospiti o finisse dentro una fontana, la sua passione.
L’esperienza ha smesso di essere rilassante. La giornalista si è resa conto di non riuscire più a dedicare la giusta attenzione né ai vini né alla persona che glieli stava raccontando, finendo quasi sempre per sentirsi in imbarazzo, anche nei luoghi dichiaratamente “family-friendly”. La sua riflessione diventa anche economica: perché spendere cifre importanti per una degustazione se non si riesce a goderne appieno?
Un luogo per ogni cosa
La conclusione a cui è giunta è che cantine e birrifici non sono la stessa cosa. Le visite ai birrifici, spiega, hanno quasi sempre uno scopo puramente sociale, si beve a pinte e nessuno si aspetta una spiegazione dettagliata del terroir del luppolo. La degustazione in cantina, invece, pur potendo essere conviviale, ha come scopo principale l’approfondimento e la scoperta. Per la socialità legata al vino, aggiunge, esistono i wine bar.
Come giornalista, ritiene che la scelta delle cantine di puntare sull’accessibilità sia una mossa commercialmente intelligente. Ma come madre di un “adorabile ma ferale bambino di due anni“, la sua decisione è presa: “la prossima volta, chiamo una babysitter”.