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Innovazione
16/05/2025
Di Sandra Longinotti

La pasta di qualità, come riconoscerla, gli chef, le idee innovative e l’evoluzione del Pastificio Verrigni

Impossibile pensare alla cucina italiana senza la pasta, un ingrediente così familiare che spesso si acquista automaticamente, fedeli alla marca che abbiamo sempre visto cucinare a casa o che ci è entrata in testa grazie a una pubblicità martellante.
Eppure, il mondo della pasta è molto variegato e possono esserci differenze sostanziali fra un prodotto e l’altro, basti pensare al divario che c’è fra una pasta industriale e una artigianale.
Ma come si riconosce una pasta di qualità senza essere esperti del settore?
L’ho chiesto a Francesca Petrei Castelli, co-owner&founder del Pastificio Verrigni a Roseto degli Abruzzi, che al rispetto della materia prima 100% italiana abbina alla pasta idee innovative come la trafilatura in oro e l’affumicatura, giusto per citarne un paio di successo.
Anche in termini di sostenibilità i progressi sono costanti, dopo aver portato a termine la riduzione delle emissioni durante il ciclo produttivo l’attuale obiettivo è arrivare a un packaging totalmente riciclabile, di carta al 100%.

Francesca Petrei Castelli a Taste 2024

Una buona pasta si può riconoscere dalla confezione?

Visivamente è un po’ difficile, anche se estremizzando ci sono paste industriali molto lucide, troppo perfette, che guardandole sembrano un po’ plasticose, anche il packaging ti fa già capire che si tratta di un prodotto industriale rispetto a come è incartato e preparato quello artigianale. Attenzione però, ci sono anche confezioni ben studiate che servono proprio a suscitare l’idea di artigianalità nell’immaginario dell’acquirente, come la carta old style…
La realtà è che nel mondo del food per il consumatore è abbastanza difficile tenersi informato. Parlando di pasta artigianale, mi è capitato di leggere delle vere e proprie corbellerie pubblicate su giornali online, per non parlare delle classifiche veramente imbarazzanti di alcuni siti gourmet.
Alla fine, l’etichetta è l’unica ancora di salvezza. Da lì puoi vedere l’origine della materia prima e dove si trova l’azienda, che a seconda del prodotto è importante sia nell’area territoriale giusta. Per esempio, non prenderei una bresaola che viene dalla Sicilia o una pasta fatta a Sondrio perché lì non c’è tradizione, non c’è cultura pastaia, non c’è clima…
Trovo sia anche importante cercare di informarsi almeno sulle dimensioni del produttore. Questo non perché un’azienda industriale non possa fare un buon prodotto, ma perché la pasta industriale ha una differenza importantissima che la distingue totalmente dalla pasta artigianale. Il pastificio industriale non si può permettere di essiccare a 45-50 °C, tenendo le macchine ferme per 24 ore, non lo può fare perché ha dei costi fissi alti, deve produrre tanto e quindi è costretto ad accelerare. Non c’è niente da fare, l’industria corre, l’artigiano ha un altro modo di lavorare, un’altra tempistica e ovviamente di conseguenza altri costi e un altro prezzo.

Pastificio Verrigni, essiccazione dello Spaghettoro

Cosa significa “tenere le macchine ferme 24 ore”?

È la fase di produzione in cui la pasta dopo il preincarto entra in forni di essiccazione. Nel nostro pastificio abbiamo quattro piani di forni (noi produciamo coi nostri vecchi impianti della Pavan o con quelli originali riadattati), quando sono completamente carichi la caldaia resta accesa per un numero di ore che varia a seconda del formato: più è spesso/grande e più ore sono necessarie, quindi, possono essere da 18 a 48 ore quelle in cui hai i forni pieni che stanno essiccando la pasta a 45 °C, per cui il processo produttivo a monte è in sospensione.
I forni sono il collo di bottiglia del pastificio e quanto vuoi accettare che impattino nella tua attività è una scelta, economica e di prodotto: se alzi la temperatura si riducono i tempi e quelle 18 ore diventano 9, se la alzi ancora ti basta un quarto del tempo. La pasta non si brucia perché in realtà non stai cuocendo ma essiccando, e l’essiccazione industriale non è mai inferiore ai 90 °C. Ma a 90-100 °C l’amido diventa colloidale, cambia la struttura organolettica e ovviamente ottieni un altro prodotto.

Come si riconosce una pasta di qualità?

Prima di tutto si riconosce al tatto, ma bisogna intendersene già un po’ di più.
Iniziamo dal colore. Le paste scivolose molto lucide, con gialli accesi, devono subito insospettire. Il grano non è così, il grano non è giallo acceso, il grano un anno è più chiaro e un anno è più scuro, dipende dall’annata, dipende dall’esposizione al sole, dalla pioggia, da mille cose. Quindi è giusto diffidare delle paste sempre uniformi, che negli anni sono sempre identiche, perché questo giallo così finto si riscontra spesso nelle paste iperindustriali.
Poi solitamente quando si butta la pasta nell’acqua, come quando si cucina qualunque alimento che esista in natura, si dovrebbe sentire un odore. Se cuoci la verdura senti un forte odore di verde, e se butti la pasta devi sentire un pochettino di cereale, di grano, di tostatura, qualcosa. Quando non senti assolutamente niente c’è da porsi qualche dubbio.
Nell’acqua deve rimanere qualcosa, tutti gli alimenti rilasciano nel loro fondo di cottura delle sostanze e anche la pasta deve rilasciarle: nell’acqua devi vedere qualcosa di bianco. Non troppo ovviamente, altrimenti vuol dire che la maglia del glutine è troppo lenta (e la pasta diventa “collosa”), però dev’esserci un pochino di rilascio della pasta che renda l’acqua leggermente torbida per l’interazione avvenuta tra acqua e pasta.

Rigatoni Verrigni cacio e pepe

Poi la mantecatura. E qui entra in gioco anche il nostro discorso della trafilatura. Va da sé che una trafilatura in bronzo avrà un rilascio di amido, e una trafilatura in oro avrà un rilascio più generoso perché l’oro è più morbido. Per questa sua caratteristica, quando la pasta passa nell’oro durante l’estrusione si genera meno calore e la superficie resta meno vetrificata, quindi c’è più osmosi con il mondo esterno, più rilascio di amido che fa sì che questi trafilati in oro vengano spesso prediletti per delle mantecature importanti.
In sintesi, credo che l’effetto visivo, il profumo e anche un’occhiata a quello che succede tra questa pasta e il mondo circostante, possano aiutare il consumatore a capire se sta cucinando un prodotto naturale o un prodotto trasformato da un’essiccazione a temperatura troppo alta e una lavorazione troppo industriale.

L’idea della trafilatura in oro è quella che ha dato la svolta al pastificio Verrigni?

In realtà penso che la vera svolta sia stata il passaggio dal private label al marchio Verrigni, che è antecedente alla trafilatura in oro di qualche anno. È stata una scelta coraggiosa perché siamo partiti con una pasta di qualità artigianale, sì, ma che non aveva delle caratteristiche particolari.
Poi da lì, un felice incontro con Mauro Febbrari, mio carissimo amico, che essendo il medico di Veronelli ed essendo molto amico di chef del calibro di Massimiliano Alajmo, Philippe Léveillé, Fulvio Pierangelini e molti altri, mi ha messo in contatto piuttosto facilmente con questi personaggi permettendomi di far assaggiare il mio prodotto, magari anche con una velocità maggiore rispetto a un iter tradizionale. E quindi lì abbiamo iniziato con le campionature, le chiacchiere, l’andarli a trovare… Lavorare con gli chef è stato secondo me il vero passaggio importante: ci sono stati dei predecessori che hanno scelto uno chef come uomo immagine, ma noi in realtà ne abbiamo avuti tanti.

Fusilloro con trafila in oro, Pastificio Verrigni

Poi, nel giro di qualche anno, Gaetano (Verrigni, socio del pastificio) ebbe l’idea di trafilare con un altro metallo e ci mettemmo a ragionare su quale potesse essere. Fu grazie a un mio grande amico orafo che riuscimmo a far realizzare la prima trafila d’oro, allora sì che avevamo un argomento da andare a portare da questi illustri chef della cucina italiana! Non andavamo solo come pastificio abruzzese artigianale, di tradizione eccetera, ma andavamo anche con una cosa fuori dal comune che è piaciuta alla maggior parte ma non a tutti, restando però un argomento importante da trattare, che quindi ci ha fatto entrare in molte cucine.
La trafilatura in oro è stata importante, il rapporto con gli chef importantissimo. Poi abbiamo cominciato con le forme e quindi con altre novità, nel tempo abbiamo sempre cercato di trovare qualcosa di innovativo e particolare. Come dico sempre la pasta è tradizione, quindi fare qualcosa di innovativo nella tradizione è sempre un po’ dirompente, fa sempre un po’ di rumore. Perché insomma, la pasta è pasta, bene o male non è che ci si possa inventare chissà cosa. E noi devo dire, e ne sono abbastanza orgogliosa, ci siamo inventati un sacco di cose.

Rigatoro affumicato Verrigni. Foto Verrigni e Far Agency

L’ultima novità qual è?

L’ultima è il Rigatoro affumicato.
Dal punto di vista nutrizionale la pasta affumicata non presenta differenziazioni rispetto alla pasta tradizionale, perché si tratta più che altro di un discorso di gusto, di sapore, di profumo. L’affumicatura può piacere o non piacere, ha comunque un gusto molto particolare, molto nuovo. L’idea me l’ha data Massimiliano Alajmo e noi abbiamo fatto lo Spaghettoro affumicato dopo una lunga ricerca, perché abbiamo dovuto selezionare gli ingredienti giusti, capire come affumicare dentro i forni… insomma, è stato un procedimento lungo, complesso e anche difficile. Alla fine, ci siamo riusciti, e questo Rigatoro affumicato nasce con le righe dentro proprio per quella polemica sulla pasta liscia e la pasta rigata, che io trovo veramente sciocca e quindi gli ho messo le righe dentro così, per divertimento.

Spaghetto al Volo, Pastificio Verrigni

Invece lo Spaghetto al volo da quale esigenza è nato?

Dall’esigenza del brunch. Alcuni chef ci richiedevano una pasta più veloce in cottura e io avevo delle difficoltà ad accontentarli, perché la nostra pasta è abbastanza spessa. Bisognava quindi giocare su qualche altro discorso, sulle forme in questo caso, per andare incontro a quella specifica richiesta dello chef Ettore Bocchia di Villa Serbelloni, che ci chiedeva un formato di pasta più veloce, più veloce.
Alla fine, siamo riusciti a fare uno spaghetto con delle scanalature che permettono una cottura veramente “al volo”.
E qui torniamo al nostro rapporto veramente molto stretto con gli chef, che è quello che ci ha permesso di capire e soddisfare alcune loro esigenze. Quindi Ettore Bocchia da una parte, Massimiliano Alajmo dall’altra, Moreno Cedroni che ha creduto subito in noi e per primo ha scelto il Fusilloro, Enrico Bartolini che è stato il primo a mettere in carta il Peperone d’Oro, un formato contenitore nato per i finger food e gli antipasti che ricorda un peperone, e con nostra grande gioia tanti altri.

Peperone di grano e ostriche, chef Enrico Bartolini del ristorante tristellato Mudec a Milano

Gli chef hanno poco tempo, ma sono sempre stati molto collaborativi nel creare cose nuove. È ancora così?

Quello che si instaura con gli chef, soprattutto con gli amici, è un rapporto diciamo di collaborazione e una fucina di idee. La nostra forza, insieme alla trafilatura in oro ma non meno della trafilatura in oro, è stata entrare a stretto contatto con la ristorazione e con gli chef in prima persona. Poi a mano a mano che crescono li perdi un po’, ti parlo di chef che ho fra virgolette conosciuto senza stelle che adesso ne hanno 2, 3… o che ho conosciuto con una stella come Niko che adesso è Niko Romito.
Ovviamente aumentando gli impegni il tempo che c’era per stare insieme quando erano più liberi, meno manager, purtroppo si riduce. Veniamo tutti presi dalla nostra quotidianità, a maggior ragione loro che viaggiano tantissimo, ma quando li vai a trovare è sempre bello perché a fine servizio ci scappa quella bella chiacchierata che ti fa anche ripensare ai vecchi tempi.

Come vedi il futuro della ristorazione?

Noto che di fianco al grande lavoro di ricerca che da anni stanno facendo gli chef per proporre esperienze del gusto diverse, a volte uniche, c’è un bel ritorno delle trattorie in chiave contemporanea e di quei buoni ristoranti dove si cucina veramente bene.
Mi auguro che continui ad essere questa la chiave di lettura futura, un’offerta diversificata dove qualità e professionalità restino il punto di partenza fondamentale nella realizzazione di ogni piatto, anche il più semplice.

Pennoni alla sardella Crucolese con “latte di ceci”, bottarga di muggine e crudo di gamberi rossi, chef Massimiliano Alajmo del ristorante tristellato Le Calandre a Sarmeola di Rubano, PD. Foto di Riccardo Andreatta

Come nasce un nuovo tipo o formato di pasta? Da un’idea che viene così, da un’esigenza o da una richiesta di uno chef?

È successo tutto. È successo che uno chef ci ha chiesto lo Spaghetto al volo, è successo che Massimiliano (Alajmo, chef del tristellato Le Calandre) ci ha parlato dell’affumicatura, è successo che Gaetano (Verrigni, socio del pastificio) ha pensato di usare un altro metallo per la trafilatura… Non c’è un filo conduttore, anche perché quando avviene una “scoperta” spesso capita per caso, perché tu empiricamente guardi qualcosa.
È successo per esempio che guardando il pacchero che lo chef aveva tappato sul fondo con la mollica per poterlo riempire mi sono detta “ma scusa, perché non glielo chiudiamo noi?” ed è venuto fuori il Peperone d’Oro… Ecco capita così, molto tranquillamente, con la curiosità. Poi è un mondo che conosciamo e dove ci muoviamo abbastanza bene, così di quelle 10 idee sai già che le prime 8-9 non possono dar frutto e ti concentri sull’unica possibile.

Come arrivi a selezionare l’idea che può funzionare?

Ti faccio degli esempi. Conoscendo il mondo della pasta sai che non deve cuocere troppo a lungo, altrimenti limiti quel formato alla famiglia e lo escludi dalla ristorazione. Quindi spessori, dimensioni eccetera sono già una prima limitazione.
Rispetto a quanto ho detto, il nostro Peperone d’Oro va controcorrente, ci vuole molto a farlo ma ha altre caratteristiche: è un formato contenitore, quindi, se vuoi fare un bel finger food sei disposto a perdere un pochino più di tempo, e infatti funziona, ma è l’eccezione che conferma la regola.

Peperone d’Oro finger food, resident chef Gabriele Boffa del ristorante bistellato Locanda del Sant’Uffizio a Calatafimi Segesta, TP

Puoi invece arrivare ad escludere un formato troppo arzigogolato, per esempio tanti formati creati con la stampa 3D sono troppo strani, troppo grandi, troppo originali… Sono un po’ come un vestito molto estroso, lo compri, lo metti una volta ma poi è difficile che lo rindossi, perché quando è troppo è troppo. Quindi va bene uscire dagli schemi, va bene mettere uno spigolo dove c’era il tondo, però non andrei mai a fare una casetta o un oggetto troppo particolare perché poi non ha senso, nel quotidiano non ci entra.
Devi anche conoscere il consumatore, capire che lo chef lo affascini con la bellezza, con la velocità, magari con qualche caratteristica di sapore in più e a seconda dello chef sai cosa potrebbe essere utile proporgli, anche se poi è ovvio che se esce un formato nuovo la prima cosa che fai è mandarlo un po’ a tutti per farlo assaggiare.

Fusilloro cuore di piccione e raguse, chef Moreno Cedroni del ristorante bistellato Madonnina del Pescatore a Senigallia, AN. Foto di Brambilla Serrani

Chi è il tuo acquirente tipo, quello che compra la pasta Verrigni?

È quello che assaggia la nostra pasta e non la cambia più, una frase che mi sento dire spessissimo è “crea dipendenza!”. Solitamente compra lo Spaghettoro, il Fusilloro e il Soqquadro. Perché? Perché abbiamo tantissimi appassionati che comprano soprattutto la pasta trafilata in oro, anche se il grosso del fatturato lo danno anche i formati trafilati in bronzo, che vanno tantissimo.

Tornando alle innovazioni, sono previste delle novità a breve?

Probabilmente lavoreremo su un nuovo formato trafilato oro e stiamo pensando di aggiungere un membro alla famiglia dell’affumicato, che ha avuto un ottimo riscontro: attualmente lo Spaghettoro affumicato è il secondo in classifica dopo lo Spaghettoro tradizionale.

Spaghettoro con scorfano, asparagi e arancia, chef Michelino Gioia del ristorante stellato Il Pellicano a Porto Ercole, GR

Cosa ti auguri per il futuro della tua azienda?

Per me è essenziale seguire i principi che caratterizzano il nostro prodotto. Quindi materia prima italiana lavorata come si deve, il riconoscimento da parte di ottimi chef e delle persone che capiscono di cibo, avere un brand di rispetto e, cosa che mi riempie di orgoglio quando vado in giro, continuare a sentire che la nostra pasta è riconosciuta da persone che hanno voce in capitolo, ti fanno osservazioni puntuali e sono capaci di rappresentarne i punti di forza. Perché alla fine si lavora soprattutto per la soddisfazione di quello che facciamo, e poi anche per tutto il resto. Quindi mi auguro di poter continuare a crescere e ovviamente, come tutti gli imprenditori, di trovare nuovi mercati esteri, di riuscire ad essere presente in sempre più retail e di migliorare, migliorare sempre.

Terreni dell’azienda agricola Solagnone, dove viene coltivato il grano per produrre la Linea Oro del pastificio Verrigni

VERRIGNI, nascita ed evoluzione di un pastificio all’avanguardia

Le radici del Pastificio Verrigni, che due anni fa ha festeggiato i primi 125 anni, affondano molto lontano. Da piccolo pastificio di paese che riforniva le famiglie limitrofe, negli anni ‘50-’60 si trasferisce nell’allora zona industriale. Mentre il mercato rimane molto locale il pastificio si specializza nel private label.
Nel 1995, quando Francesca Petrei Castelli entra in azienda e in famiglia, era tutto private label.  La vera svolta avviene quando il pastificio passa dalla produzione a marchio terzi alla promozione del proprio marchio, mantenendo un doveroso attaccamento al passato, perché la tradizione e la tipologia di lavorazione sono antiche.
“Poi c’è da dire, e questo ci tengo a dirlo” spiega Francesca “che la cura della materia prima, la scelta di utilizzare esclusivamente materie prime 100% italiane e l’attenzione quasi maniacale alla qualità che si è avuta poi con questo switch, è una novità della nuova gestione perché in passato un po’ in tutto il mondo alimentare si era più superficiali dal punto di vista qualitativo, un po’ in tutti i campi. Anche in quello della pasta non c’era questa meticolosità, questa attenzione all’origine delle materie prime, che è arrivata con la promozione del nostro brand Verrigni. Tutta la Linea Oro, ad esempio, è prodotta col grano della mia azienda agricola Solagnone di 110 ettari in rotazione agraria.”

Il Pastificio Verrigni in numeri

Siamo in 14, i formati in catalogo sono una sessantina, il fatturato annuo è sempre un paio di milioni di euro, la produzione giornaliera di pasta è di circa 40 quintali. Siamo sul 30% di export e si riconfermano gli stessi mercati di riferimento, con Dubai come new entry.

Francesca Petrei Castelli con Mariella e Moreno Cedroni del ristorante bistellato Madonnina del Pescatore, durante la serata di anniversario dei primi 125 anni del Pastificio Verrigni
Sandra Longinotti
Sandra Longinotti

Dopo anni nel settore moda, sono tornata alla passione di sempre: il cibo. Sono giornalista freelance, food stylist e autrice di due libri di cucina, orto urbano e life style editi da Nomos Edizioni: “Peperoncini, 32+1 varietà da scoprire” e “Home Kitchen Garden”, pubblicato anche in tedesco. Nel 1992 inizio a scrivere articoli di food&wine e realizzare servizi di cucina per le migliori testate italiane (Vanity Fair, L’Uomo Vogue, L’Espresso, Myself, Grazia, D la Repubblica, Elle Italia). Nel 2009 apro il mio blog sandralonginotti.it dove parlo di food, chef, ricette, mise en place, orto sul balcone, eventi, vino, ristoranti, news e dove puoi scaricare i miei swipemag monografici “Style of Food”, dedicati ognuno a un alimento diverso. Mi trovi su Instagram, X, Facebook, Linkedin, Pinterest, Youtube… e al parco col mio cane Zora.

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