Contemporary Langhe: i 25 anni della collezione d’arte Ceretto
“Una bottiglia di Barolo per ogni settimana della vostra vita”. Suonò come una scommessa e come una proposta irrinunciabile quella che, nel 1999, la famiglia Ceretto rivolse ai due grandi artisti David Tremlett e Sol Lewitt, chiamati a trascorrere qualche giorno a La Morra per progettare il grande intervento pittorico destinato a rinnovare il volto di una piccola chiesetta di campagna ormai in rovina. Già nel 1970, con l’acquisto di sei ettari del vigneto di Brunate, i Ceretto erano entrati in possesso della piccola cappella, ma sarà l’intuizione del britannico Tremlett a trasformare del tutto l’edificio e, con esso, l’intero paesaggio, oggi meta di oltre centomila persone l’anno, in visita – o pellegrinaggio! – nelle terre del Barolo. Toccherà però attendere il 2025 per riportare la Cappella del Barolo al suo massimo splendore: il restauro in corso e una sorpresa che sorgerà nei pressi dell’edificio faranno il resto.
Una grande avventura di famiglia
Comincia da qui la straordinaria avventura di una delle famiglie più prestigiose della storia enologica italiana; una storia che si dirama intrecciando le sorti di vini leggendari con quelle di grandi opere di arte e architettura collocate tra lievi pendii e alcuni “scrigni” segreti delle Langhe. Oggi che, a pochi ettari di distanza, va in scena “Panorama Monferrato” – una delle principali rassegne d’arte itineranti, che mette in relazione arte, architettura, antichità e contemporaneo con il territorio e le sue comunità – torniamo in queste terre per conoscere da vicino il lavoro pionieristico, sia enologico che artistico, che la Ceretto ha avviato già alla fine del secolo scorso.
Di “convergenza naturale e avvincente” parla oggi Roberta Ceretto, presidente dell’azienda, sottolineando come il racconto di un territorio si nutra di sollecitazioni plurali, dove l’incontro con il vino è sempre conoscenza di una storia millenaria e di una contemporaneità che scrive il futuro, tra utopie, scommesse, azzardi e visioni. Come quelle all’origine degli spazi più iconici con cui Ceretto ha scelto di rappresentare i luoghi più significativi della propria azienda: l’Acino, una cupola emisferica trasparente, sospesa sui vigneti della tenuta Monsordo, disegnata dallo Studio Architetti Deabate; e il grande Cubo, sulla vetta della Cantina Bricco Rocche. Immaginate di sedervi ai grandi tavoli di degustazione all’interno di due monumenti di cristallo, assecondando il gusto di rotonde morbidezze e spigolose tannicità, tradotte in maniera plastica da queste due complementari architetture: elegante, purissima armonia di forme e di sapori.
L’espressione del territorio
Pochi luoghi in Italia hanno saputo definire, con il massimo rigore, un’espressione così radicale del territorio, giungendo a individuare cru così differenti e distinti in pochi ettari a ridosso del fiume Tanaro. Oltre 170 i cru di Barolo – le sue Menzioni Geografiche Aggiuntive – in circa 2.000 ettari; 66 quelli di Barbaresco nei 750 ettari più a oriente. Dai suoli antichi e dalle marne di Sant’Agata fossili (epoca Tortoniano-Messiniano) nella Langa del Barolo a quelli più sabbiosi, dai sedimenti fini di limo e argilla nella vicina Barbaresco. Per giungere poi oltre riva, più a nord, dove le rocce più giovani danno spalla, mineralità e finezza ai sontuosi bianchi di Roero.
Ed è proprio qui che Ceretto inventa già negli anni Ottanta il vino della fortuna, quel Blangè destinato a diventare uno dei vini più amati d’Italia, best seller e long seller sin da quando i fratelli Bruno e Marcello Ceretto, nel periodo di gloria dei grandi rossi piemontesi, riscoprono un vitigno quasi dimenticato: l’Arneis. La scelta del nome di fantasia riportato in etichetta proviene dalla “vigna del panettiere” – boulanger, in francese – così chiamata perché un tempo posseduta da un fornaio francese giunto nel Settecento nel Roero. Ma il nomignolo francofono, così vibrante sulla lingua – così come quel fine pétillant che segna l’approccio gustativo del vino – è solo una delle intuizioni commerciali dei Ceretto; accanto a questa, la scelta di affidare la grafica dell’etichetta al design innovativo e accattivante di Silvio Coppola, architetto milanese di fama internazionale: una soluzione “immortale” che porta in giro per il mondo la grande “B” di un Bianco inconfondibile.
Da allora, nulla è stato mai lasciato al caso nel progetto grafico delle etichette e in quello dell’azienda e dei suoi… “satelliti”. Già, perché Ceretto è un grande progetto diffuso, che vanta anche la ristorazione con una doppia proposta degna della massima attenzione.
Piazza Duomo, Tre Stelle Michelin
Siamo nuovamente all’inizio degli anni Duemila quando, l’imprenditore e mecenate piemontese Bruno Ceretto intuisce l’importanza di promuovere turisticamente queste terre anche attraverso la cucina di eccellenza di un grande ristorante. Dall’incontro con lo chef Enrico Crippa nasce così l’avventura di Piazza Duomo, il tre stelle Michelin che porta la cucina piemontese all’apice dell’espressione gastronomica. Una magia che, a due anni dall’apertura, afferma la sua nuova identità visiva grazie all’intervento pittorico di uno dei massimi maestri della Transavanguardia italiana, Francesco Clemente. I suoi affreschi trasformano la sala in un tempio, un luogo dello spirito, dove appaiono diffusi i segni di un linguaggio arcaico, immaginifico ed onirico. Il cervo, la gabbia degli uccellini, una cesta, alcuni attrezzi, le foglie di vite: tutto si tiene per mezzo di una corda dipinta nel roseo soffitto di un luogo di pace.
La Piola, la trattoria della convivialità
Ma c’è di più. Basta attraversare Piazza Risorgimento, in pieno centro ad Alba, per cambiare menu e prospettive, giungendo ai tavoli della Piola, il concept-trattoria di Ceretto, il ristorante di ogni giorno, progettato per la convivialità e per la riscoperta della tradizione langhigiana. L’ambiente è più spartano, l’approccio disinvolto ma, ancora una volta, la scelta meticolosa di affidare le pietanze anche all’esperienza dello sguardo ci permette di scoprire un’intera collezione di ceramiche, appositamente disegnate da artisti di fama mondiale (“Piatti d’Artista” nella foto di apertura di Letizia Cigliutti). Una galleria d’arte in miniatura in cui si alternano 12 artisti per circa 40 differenti opere, impresse sul fondo del piatto: dagli animali di Kiki Smith agli ornamenti di Philip Taaffe, dai decori geometrici di Thomas Nozkowski a quelli aerei ed evanescenti di Ugo Rondinone, dai codici Pop di Robert Indiana e Jasper Johns – sì, proprio loro, i giganti americani – via via passando per le invenzioni di Donald Baechler, James Brown, Lynn Davis, Gary Hume, Terry Winters, fino a rimanere – letteralmente – a bocca aperta di fronte all’urlo di vampiro impresso nelle porcellane di John Baldessari.
Piatti e vini in dialogo
L’impressione è che piatti e vini si parlino come dentro a un libro, come in un romanzo i cui protagonisti hanno caratteri, età e velleità ben differenti. È tuttavia lo spirito dei luoghi, e quello dei calici opulenti, a tessere le trame. Ogni piatto ha un suo compagno di tavola e avventura; ognuno abita il bricco di una collina diversa: il Barolo di Brunate, quello di Bussia e di Prapò, con la sua progressione infinita di sapori autunnali, di terra, bosco, foglie, fumo e catrame. Oppure il Barbaresco di Asili – tra i primi nati in casa Ceretto – accanto a quello di Gallina e all’insuperabile Bernadot: provo a ricordarlo… ematico, di cuoio e incenso, di tartufo e cannella con scorza d’arancio che scalpita e dà ritmo, evoluzione, eco lunghissima.
È giunta l’ora di tornare. Riprendere la strada sinuosa tra le colline, intrattenersi ancora un attimo al tramonto di fronte ai giganti di “LOVE”, le due sculture fuse in bronzo di circa 4 metri e mezzo che Francesco Clemente ha da poco posizionato a guardia della Tenuta Monsordo-Bernardina: due figure femminili specchiate con la testa a forma di nuvola. O con la testa tra le nuvole, se tutto quanto sembra così perfetto ed irreale, degno di una favola contemporanea.