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Sostenibilità
23/04/2024
Di Redazione AIS

Dalle vigne ai ristoranti, l’impegno “verde” cambia il servizio del vino.

In un’epoca in cui la consapevolezza ambientale modella sempre più le nostre scelte, il mondo della ristorazione, e in particolare quello del vino, sta vivendo una trasformazione silenziosa ma profonda. Se l’idea di sostenibilità trova facile applicazione nell’immagine di un vigneto coltivato nel rispetto della natura, la sua implementazione all’interno di un ristorante presenta sfide più complesse e richiede un approccio olistico. Come emerge chiaramente da un’approfondita inchiesta della giornalista Kate Dingwall, oggi sono i sommelier e i wine director a porsi come figure chiave di questa evoluzione, utilizzando le loro competenze e le loro carte dei vini non solo per guidare il gusto, ma per promuovere attivamente pratiche di consumo più responsabili e “verdi”.

Questo impegno va ben oltre la semplice inclusione di qualche etichetta biologica o biodinamica. Si tratta di una curatela profondamente consapevole, come dimostra l’approccio di Laurel Livezey presso Little Saint, ristorante e wine lounge “plant-based” a Healdsburg, California. I suoi criteri di selezione sono rigorosi: “innanzitutto, la sostenibilità: cerco vini prodotti con pratiche biologiche, biodinamiche, rigenerative o comunque a basso impatto ambientale“, spiega Livezey, ponendo l’accento sulla ricerca di produttori che siano veri “custodi premurosi della terra”. Ma la sua visione si allarga alla rappresentatività, cercando attivamente di dare spazio a figure spesso sottorappresentate nel settore vinicolo: donne, persone BIPOC (Black, Indigenous, and People of Color) e membri della comunità LGBTQ+.

Un altro pilastro fondamentale è la località. Sia Livezey nella regione di Sonoma, sia Taylor Johnson dell’Echelon Kitchen & Bar con i produttori del Michigan, dimostrano come il privilegiare il “chilometro zero” (o quasi) sia una scelta strategica cruciale. Come sottolinea l’articolo originale, questa scelta non solo celebra il territorio, ma contribuisce in modo significativo a ridurre l’impronta di carbonio, considerando che, secondo il World Resources Institute, il trasporto incide per un impressionante 90% sulle emissioni di gas serra legate al vino. Inoltre, permette di aggirare le complessità legate alle spedizioni internazionali e ai dazi. “Molti di questi vini”, nota Livezey, “ci vengono consegnati a mano dai produttori stessi o da rappresentanti locali, senza lunghi trasporti”.

Navigare il panorama delle certificazioni “verdi”, tuttavia, non è semplice.

Scott Thomas, che sovrintende una lista per il 95% sostenibile al Restaurant Olivia di Denver, riconosce la difficoltà: “identificare la sostenibilità non è sempre facile a causa delle leggi sull’etichettatura e delle differenze tra i sistemi di certificazione UE e USA“. Spesso, aggiunge, “la burocrazia diventa una barriera per i produttori che lavorano in modo organico ma scelgono di non perseguire la certificazione ufficiale“. Per questo, figure come Livezey non si affidano esclusivamente ai bollini ufficiali, ma valorizzano soprattutto “l’integrità, l’intenzione e le scelte che rispettano la terra e le persone che la lavorano”, premiando chi dimostra un impegno concreto, “walking the walk”, come si dice in inglese.

L’ingegnosità dei sommelier si manifesta potentemente nella lotta allo spreco, trasformando quello che potrebbe essere un costo in una risorsa preziosa.

Al Restaurant Pearl Morissette in Ontario, insignito della prestigiosa Stella Verde Michelin proprio per queste pratiche, la gestione degli abbinamenti al calice permette di prevedere e minimizzare le eccedenze. Robert Luo, wine director, spiega: “qualunque cosa non venga utilizzata, possiamo darla alla cucina per le preparazioni, oppure ridurre il vino per il nostro programma analcolico“. La filosofia del “non si butta via niente” si estende all’orto del ristorante: “amiamo gli scarti”, afferma Luo. Così, bucce di mela diventano kombucha e pastinache infuse rivelano sorprendenti note.

Similmente, Dylan Estey della catena di steakhouse carbon-neutral Hawksmoor, affida i fondi di bottiglia al team del bar per creare sciroppi per cocktail, mentre da Scott Thomas a Denver, gli avanzi si trasformano in aceti e tinture fatti in casa. La filosofia è chiara: “ogni sforzo conta”. Anche i tappi di sughero trovano nuova vita: Hawksmoor Chicago collabora con ReCork per riciclarli in materiali alternativi a plastiche e schiume; al Pearl Morissette vengono triturati e usati per arricchire i letti di semina; al Restaurant Olivia, Thomas ha instaurato una partnership con Ridwell (che sottrae quasi due milioni di tappi all’anno alle discariche) e sta eliminando gradualmente i tappi in plastica Nomacorc, difficilmente riciclabili nei circuiti comuni statunitensi.

Parallelamente, cresce l’attenzione verso soluzioni di packaging innovative per superare l’impatto ambientale delle tradizionali e pesanti bottiglie di vetro.

L’industria dei trasporti, come ricorda Dingwall citando Transport & Energy, è responsabile del 3% delle emissioni globali, con previsioni di crescita. Di conseguenza, formati come lattine monodose (ideali per eventi, riducono sprechi e rischi) e bag-in-box (ottimi per freschezza e volumi nel servizio al calice) guadagnano popolarità, come testimonia Livezey.

Ma è soprattutto il vino in fusto a rappresentare una svolta significativa. Catene come Sixty Vines hanno costruito il loro successo su questa formula, offrendo vini di alta qualità (da Ridge Vineyards a Duckhorn, Dr. Loosen, Ken Wright Cellar) alla spina. I vantaggi sono molteplici: ottima conservazione della freschezza e, secondo dati di Free Flow Wines, una riduzione dell’impronta di carbonio del packaging di circa il 76%. Un singolo fusto equivale a 26 bottiglie e può essere riutilizzato per una vita utile pari a circa 1.500 bottiglie. L’impatto è tangibile: Sixty Vines, solo nei primi mesi dell’anno citato nell’articolo, ha evitato che quasi 500.000 bottiglie finissero in discarica. Ridge Vineyards quantifica i propri risparmi annuali grazie ai fusti in 10.400 bottiglie non prodotte, 18.496 libbre di emissioni di CO2 evitate e 15.600 libbre di rifiuti risparmiati.

L’impegno per la sostenibilità, tuttavia, si estende a tutte le operazioni del ristorante, in una visione davvero a 360 gradi.

Hawksmoor, che vanta la certificazione B-Corp, pubblica annualmente i propri report di impatto e implementa soluzioni come un sistema di recupero del calore dalle cucine per riscaldare l’acqua. L’attenzione ai dettagli “meno affascinanti”, come li definisce Thomas, è altrettanto cruciale: l’ottimizzazione del sistema Coravin, passando a grandi bombole di argon per ridurre l’uso di cartucce monouso (diminuite della metà in sei mesi al Restaurant Olivia), o la pianificazione iper-consapevole degli ordini dai distributori, consolidandoli per minimizzare i viaggi e le emissioni associate alle consegne. “Se pensi al ciclo di vita di una bottiglia”, riflette Thomas, “anche qualcosa di semplice come ridurre i viaggi extra da e per il nostro ristorante può contribuire a ridurre la nostra fetta dell’impronta di carbonio complessiva“.

L’analisi condotta da Kate Dingwall rivela un quadro affascinante: la sostenibilità nel servizio del vino non è un concetto astratto o un’unica soluzione, ma un mosaico complesso e dinamico di azioni concrete, guidato da professionisti appassionati. È un impegno che richiede dedizione quotidiana, attenzione ai dettagli e una volontà costante di migliorare. Come afferma in modo incisivo Scott Thomas, “queste decisioni dietro le quinte sono piccole, ma contano – e riflettono la nostra convinzione che la sostenibilità sia una pratica quotidiana, non solo un’etichetta“. I sommelier, quindi, si confermano figure centrali non solo come guide esperte nel mondo del vino, ma come veri e propri protagonisti attivi di una necessaria rivoluzione verde nel calice.

Redazione AIS
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