Giorni di vino e di nasi: la confessione agrodolce di un critico enologico
In questo lungo e disincantato memoir pubblicato su The Observer, il critico David Williams analizza senza filtri la quotidianità del suo mestiere. Lontano dall’immagine romantica dell’edonista, l’autore descrive la brutalità fisica delle sessioni di degustazione di massa, il costo pagato in termini di salute dentale e il rischio sempre presente dell’alcolismo. Attraverso il racconto della sua carriera, Williams traccia anche l’evoluzione sociologica del commercio del vino britannico, passato dall’esclusività di club per soli uomini alla democratizzazione globale, offrendo infine una selezione delle sue “epifanie” liquide.
Il titolo originale scelto da David Williams, Days of wine and noses, è un gioco di parole tanto arguto quanto amaro. Ricalca il celebre Days of Wine and Roses (I giorni del vino e delle rose), il film di Blake Edwards del 1962. Se da un lato l’ironia sulla sostituzione delle “rose” con i “nasi” ci porta immediatamente nel mondo tecnico della degustazione olfattiva, dall’altro il richiamo alla pellicola — un dramma struggente sulla discesa nell’alcolismo — anticipa l’ombra che aleggia su tutto il pezzo: il confine sottile, talvolta pericoloso, tra professione e dipendenza.
Il rito della sputacchiera come dispositivo di sicurezza
C’è un suono che ogni professionista del vino conosce fin troppo bene, una colonna sonora ritmica e poco elegante che accompagna ogni grande degustazione: il rumore dello sputo. Williams ci porta dritti al centro della scena, in quelle sale piene di persone studiate e ben vestite che, con regolarità metronomica, espellono liquidi pregiati. C’è chi possiede la tecnica del “cecchino”, con un getto rapido e sdegnoso che risuona sul metallo come un proiettile, e chi opta per uno stile più rilassato, chinando il capo sul recipiente. Per chi guarda da fuori è un atto che suscita repulsione; per i 193.000 addetti del settore vinicolo britannico, e per chiunque faccia questo mestiere, la sputacchiera non è un accessorio, è un dispositivo di protezione individuale. È il nostro casco, la nostra cintura di sicurezza. Senza di essa, saremmo morti o costantemente inabili.
Williams non usa mezzi termini per descrivere la “corvée” delle stagioni di punta a Londra. Tra le presentazioni autunnali e primaverili della grande distribuzione, le fiere e i viaggi stampa, un critico può trovarsi a valutare fino a 600 vini in una singola settimana. Facendo una stima conservativa, l’autore calcola di assaggiare circa 18.000 vini l’anno. Non si tratta di un vantarsi machista sulla capacità di reggere l’alcol, ma di una contabilità necessaria che spiega il logoramento fisico. Perché, nonostante la tecnica impeccabile, una parte di alcol viene inevitabilmente assorbita dalle mucose, lasciando il degustatore in quello stato ibrido, “wired and weary”, elettrico e stanco, che tutti noi conosciamo bene dopo una sessione intensiva di tannini e acidità mattutine.
Il conto del dentista e l’ombra della dipendenza
Il prezzo da pagare per questa esposizione continua non è solo la stanchezza epatica, ma un danno strutturale ben più visibile. Williams confessa con brutale onestà il suo tributo personale alla professione: l’estrazione di quattro molari in un’unica seduta lo scorso anno. È la tassa imposta dall’acidità e dai tannini che, giorno dopo giorno, corrodono lo smalto dentale di chi passa la vita a far roteare liquidi aggressivi nel cavo orale. È un dettaglio che raramente finisce nelle biografie patinate dei grandi critici, ma che rappresenta la realtà quotidiana del mestiere.
C’è poi l’elefante nella stanza: il rapporto con l’alcol. L’autore ammette che i confini tra lavoro e piacere sono labili, specialmente in un’epoca in cui le cene dai produttori si trasformano in showroom di bicchieri pieni di annate storiche. Resistere è difficile, e il rischio professionale è alto. Williams tocca un tasto dolente del settore, notando come l’ambiente di lavoro, letteralmente inondato di etanolo, non sia certo il luogo ideale per chi sviluppa una dipendenza. La “generosità” leggendaria del mondo del vino può diventare una trappola, e l’autore non nasconde di aver visto troppi colleghi scivolare in episodi di ubriachezza pubblica o in una disperazione silenziosa. Mantenere l’equilibrio richiede una disciplina ferrea, inclusi giorni di astinenza totale, per non trasformare la passione in patologia.
Dagli esperimenti casalinghi alla democratizzazione del gusto
Il percorso di Williams è emblematico di come sia cambiato il consumo del vino nel Regno Unito. Lontano dall’essere un erede di dinastie vinicole, l’autore proviene da quella classe media britannica figlia del dopoguerra, dove il vino è entrato prima come curiosità esotica e poi come status symbol dell’era Thatcher. Il racconto del padre insegnante, autodidatta che vinificava sambuco in garage e piantava filari nel giardino di casa nell’Essex (oggi zona viticola emergente, ma all’epoca pura utopia), è tenero e rivelatore. Erano gli anni in cui il vino smetteva di essere appannaggio esclusivo dell’aristocrazia per diventare un hobby “scientifico” e sociale, tra concorsi amatoriali e viaggi in Francia con il bagagliaio calcolato al millimetro per le esenzioni doganali.
Questa evoluzione personale si scontra con l’impatto professionale avuto all’inizio della carriera, quando Williams entrò nella redazione di Harpers. Lì trovò un mondo congelato all’epoca edoardiana: uffici polverosi, abiti gessati, pranzi interminabili e un linguaggio codificato fatto di sessismo latente e classismo. Si parlava di vini “mascolini”, di “buona razza”, in un ambiente in cui l’accento scolastico statale di Williams suonava come una nota stonata. Fortunatamente, quel mondo è stato spazzato via dalla globalizzazione e dall’arrivo di una nuova generazione di giornalisti (tra cui il suo mentore Tim Atkin) che hanno trasformato la critica enologica in vero giornalismo, raccontando le crisi economiche del Languedoc o l’ascesa del Nuovo Mondo, anziché limitarsi a riscrivere comunicati stampa tra un riposino e l’altro.
L’ossessione che non passa mai
Nonostante i denti persi e la fatica, la domanda sorge spontanea: perché continuare? La risposta di Williams risuonerà familiare a ogni sommelier: per l’ossessione. Per quella ricerca infinita del “trasporto vivido” che solo una grande bottiglia sa dare. Dopo vent’anni, l’autore è ancora a caccia di quel momento trascendentale, di quella combinazione di terroir e annata che ferma il tempo. E quando la trova, non la sputa.
Tra le sue “epifanie” liquide, Williams cita territori e bottiglie che definiscono la sua mappa emotiva. C’è il Barolo autunnale, insostituibile durante la stagione del tartufo; la Valle del Douro in Portogallo, con le sue terrazze eroiche; e la mistica Georgia, culla della viticoltura in anfora. Tra le bottiglie che hanno segnato la sua vita, spicca un Château Lynch-Bages 1985, il classico claret che fa scattare la comprensione della complessità, ma anche un Columella di Sadie Family, simbolo della rinascita sudafricana. Eppure, forse il vino più rappresentativo è il Domaine du Cros “Lo Sang del Pais”, un rosso di Marcillac da uve fer servadou: rustico, ferroso, economico e dissetante. Il vino perfetto per quando il critico smette di analizzare e torna, finalmente, a bere.