Grado alcolico: ripensare il vino nell’era del clima che cambia
    Un’importante riflessione del giornalista Andrew Jefford, pubblicata sulla testata Decanter, analizza la corsa del grado alcolico negli ultimi 50 anni. Spinto dal cambiamento climatico ma non solo, questo fenomeno, secondo l’autore, ci impone di smettere di giudicare il vino dal numero in etichetta. Jefford sostiene che l’equilibrio e la freschezza sono possibili a 12% come a 16%, e che la vera sfida è la qualità, non il dato tecnico.
In un’acuta analisi per la rivista Decanter, il celebre giornalista Andrew Jefford ci pone di fronte a un paradosso che definisce il vino moderno. Prende due annate, la 1961 e la 2010, e due vini leggendari: Château Latour e Penfolds Grange. Il risultato è sconcertante.
Il paradosso del ’61: vini colossali a 12 gradi
I vini del 2010 (un Latour da 14.4% e un Grange da 14.5%) sono potenti, ma questo ce lo aspettiamo. La vera sorpresa, scrive Jefford, sono i vini degli anni ’60: il Latour ’61 segnava 12.3%, il Grange ’62 appena 12.2%. Eppure, le note di degustazione dell’epoca li descrivevano con aggettivi come “mammoth” (colossale) e “voluptuous” (voluttuoso). Vini ricchi e voluminosi a 12.2%!
Questo “cambio di marcia” nel grado alcolico, che Jefford definisce universale, è il cuore della sua riflessione: perché è successo e come dobbiamo porci di fronte a questa realtà?
Le cause: clima, critica e tecnologia
Jefford identifica diversi fattori. Il più serio, che non riguarda solo il vino ma la nostra stessa sopravvivenza, è il cambiamento climatico antropogenico. L’aumento della CO2 atmosferica (passata da 317 ppm nel 1961 ai quasi 429 ppm di oggi) ha portato a germogliamenti anticipati, stagioni più calde e brevi, e vendemmie precoci.
Ma non è l’unica causa. L’autore cita anche la migliore salute delle vigne, una gestione agronomica ottimizzata e l’uso di lieviti selezionati più efficienti. Ha giocato un ruolo anche il gusto: Jefford menziona il periodo 1990-2010, dominato da una certa critica enologica, che ha favorito vendemmie tardive e vini opulenti. Sebbene oggi, ammette, la tendenza si sia invertita verso la ricerca di “tensione e precisione”.
Il tranello dell’etichetta: un numero che inganna
Ma che ruolo ha l’alcol? Jefford raccoglie il parere di molti esperti. È ciò che “riempie il palato” (Michael Schuster), la “colonna vertebrale” del vino (Alejandro Vigil), ciò che “unisce tutti gli ingredienti” (Brian Croser) e che, in fondo, “libera l’immaginazione” (sempre Croser). È l’elemento, come dice Tamlyn Currin, che dà “zavorra e scafo” a un vino, il suo centro di gravità.
Qui sta il punto centrale dell’argomentazione di Jefford: se l’alcol è così importante, come ci dobbiamo regolare? L’autore ci mette in guardia dall’ossessione per il numero stampato sull’etichetta. Primo, perché le etichette sono spesso imprecise: le tolleranze legali variano enormemente (fino a 1.5% negli USA). Un vino che crediamo sia 12.8% potrebbe legalmente essere 13.8% nel Regno Unito o 14.3% in America.
Ma soprattutto, il dato è una guida ingannevole. Jefford cita ancora Tamlyn Currin: “la freschezza è il mio santo graal. Ma definirla è come cercare di disegnare il vento”. La Currin fa notare come Sherry e Madeira, tra i 15% e 20%, possano essere incredibilmente freschi, mentre certi vini a 12% risultano “spogli” o “flaccidi”. Un Amarone a 16% può “scoppiettare” di freschezza. Una bottiglia di vino, conclude, “è un ecosistema”: focalizzarsi solo sull’alcol è una trappola per il palato.
Equilibrio o gusto? Il grande dibattito
Jefford, però, non si accontenta e apre un dibattito. È solo una questione di equilibrio? Michael Schuster non è d’accordo: “il vecchio mantra ‘il livello non conta se il vino è equilibrato’ è come dire a un bevitore di caffè che non c’è differenza tra un espresso e un americano. Entrambi possono essere equilibrati, ma sono bevande diverse”.
Si tratta quindi di capire il proprio gusto. L’articolo cita Doug Wregg (Les Caves de Pyrene), che ammette di amare i vini “sull’orlo della maturazione, quasi acerbi”, che rappresentano lo zeitgeist attuale. Ma Jefford dà voce anche a Justin Howard-Sneyd MW, che offre una prospettiva opposta: criticare l’alto grado alcolico è spesso un modo per “darsi un tono” da parte degli esperti. Il “mercato di massa”, sostiene, preferisce ancora i sapori dei vini più maturi e alcolici.
Lo stesso Jefford ammette di amare la morbidezza e ritiene che si presti troppa attenzione a un numero, quando aroma, consistenza ed equilibrio sono molto più importanti. A riprova di ciò, l’articolo cita una degustazione di “leggende della Napa Valley” in cui vini con 14.5% e persino 15.5% di alcol sono stati lodati dai critici per il loro “superbo equilibrio” e la loro “incredibile leggerezza al palato”.
La sfida in vigna: la ricerca di un nuovo limite
Come si sta muovendo, quindi, il mondo della produzione? Jefford elenca le strategie di mitigazione: dalla gestione del suolo e dell’ombreggiamento (agroforestazione, sistemi di allevamento) alla vendemmia notturna, fino a soluzioni drastiche come lo spostamento dei vigneti a quote più alte o il cambio di vitigni.
L’articolo riporta la testimonianza cruciale di Louis Barruol (Château de Saint Cosme a Gigondas). La vera soluzione per lui è l’assemblaggio: “Quello che ci salverà è usare altri vitigni. Non abbandoneremo il Grenache, ma basterebbe un 15% di Picpoul Noir per riequilibrare tutto”. La sfida, come nota Brian Croser, è far coincidere la maturazione zuccherina con quella fenolica (dei sapori).
Barruol stesso racconta a Jefford la sua agonia nella torrida annata 2003. L’uva era a 14.5% ma ancora “verde”, fisiologicamente acerba. Aspettò. I vini arrivarono a quasi 16%. Oggi, dice, è “impressionato” da come sono evoluti, ma aggiunge: “non mi piacciono. Non sono equilibrati”. La lezione: gli estremi (verde o superalcolico) sono entrambi sbagliati.
Conclusione: un appello alla flessibilità
L’articolo di Jefford si chiude con uno sguardo al futuro. Il riscaldamento continuerà. Le strategie di mitigazione possono rallentare l’aumento dell’alcol, ma non è detto che ci riescano. Se falliranno, le alternative sono solo due: cambiare gli assemblaggi o cercare nuovi, eroici vigneti in altitudine.
La speranza dell’autore, tuttavia, è che gli appassionati imparino ad apprezzare “tutta la gamma di alcol nel vino”, così come apprezzano ogni altro aspetto della sua espressività, evitando “l’inutile rigidità estetica” che deriva dal fissarsi su un numero. Il nostro vino, conclude Jefford, riflette il nostro mondo. E, nonostante tutto, entrambi rimangono meravigliosi.