I freschi bianchi siciliani
Per un ostinato pregiudizio i vini siciliani in generale, e i bianchi in particolare, sono considerati alcolici, pesanti, non facili da bere.
Del resto, anche un nume tutelare della Patria enoica, Paolo Monelli, scriveva negli anni Trenta che i bianchi meridionali “non sanno più di fiori e di frutta ma di olive e di erbe dell’orto”.
Un pregiudizio grazie al cielo superato dalle nuove generazioni di bevitori, che hanno ormai ben presente, per fare l’esempio più didascalico, la freschezza dei bianchi etnei: vini di sicuro vibranti e dinamici, tutto meno che appiccicosi se coerenti con il loro territorio e la loro (recente) tradizione.
Meno consolidata l’idea che altre aree produttive sicule sappiano fare altrettanto. La Valle di Noto, nel quadrante sud-orientale dell’isola, vanta una tradizione vitivinicola millenaria, ma la sua fama moderna è certamente legata al nero d’Avola e ai relativi rossi, da qualche decennio conosciuti per la loro struttura e generosità; quando non per la loro opulenza un po’ debordante.
Inaspettatamente bianchi
Non altrettanto intuitiva – nella mente dell’enofilo medio – l’associazione con i vini bianchi, se si esclude il tradizionale Moscato di Noto, che è una tipologia di vino soprattutto dolce variamente declinato dai produttori locali.
Eppure, proprio da qui, da un vasto areale calcinato dal sole in estate – ma posto a una discreta altitudine media e capace di moderate escursioni termiche tra il giorno e la notte – provengono alcuni degli specimen più stimolanti di bianchi agili, poco alcolici, amici della tavola.
È senz’altro il caso della proposta di Riofavara, nucleo produttivo attivo soprattutto dalla metà degli anni Novanta grazie all’opera di Massimo Padova. L’azienda si muove in virtuoso equilibrio tra naturalità e modernità. Dove per naturalità si intendono scelte agronomiche biologiche, assenza di trattamenti aggressivi, un indirizzo complessivo attento al rispetto dell’ambiente; e per modernità l’impiego di tecniche non arcaiche in cantina, che non disdegnano l’uso di macchinari moderni, ove rispettosi della materia prima. Ciò dà vita a vini irreprensibili sul piano della grammatica enologica e allo stesso tempo liberi, “sciolti”, non ingabbiati da alcun protocollo omogeneizzante.

Una strada alternativa
La gamma aziendale è vivacizzata da nomi evocativi: Spaccaforno, Mizzica, Notissimo, e simili. I rossi sono abbastanza buoni, qua e là perfettibili. Personalmente apprezzo in speciale misura i bianchi: dal finto-semplice Marzaiolo, taglio di uve autoctone di succosa bevibilità, al Mizzica, un Moscato Bianco, non dolce, arioso nei profumi e sapidamente rinfrescante al palato.
Le considerazioni sul bianco più complesso della linea, il notevole Nsajàr, ottenuto da varietà rare e in via di recupero (recunu, cutrera, rucignola), richiederebbero un post a parte. Qui mi premeva far intravvedere al lettore curioso una strada alternativa alle – pur valide – scelte classiche nordiche quando si tratta di portare a tavola vini bianchi snelli e vivaci.

La foto di apertura è di Corina Rainer su Unsplash