I sommelier d’oltreoceano riscrivono la lingua del vino
In Italia il fenomeno è ancora del tutto marginale, ma meritevole di riflessioni, ma in USA e Canada c’è già una generazione di sommelier che sta rivoluzionando il linguaggio del vino, sotto l’egida dell’inclusività, dice Kate Dingwall. Il vino, dopotutto, può essere intimidatorio, specie per migliaia di ragazzi provenienti da nazioni differenti, che considerano il vocabolario consolidato troppo escludente.
Alice Achayo, per esempio, è una sommelier cresciuta in Africa Orientale. Nata tra manghi e giaca, una volta entrata nel mondo del vino, è rimasta sorpresa. Questi, come molti altri, non erano sapori che il mondo del vino sembrasse riconoscere. Giaca? Liquidabile come generico “frutto esotico“. Uva spina? Questa sconosciuta. Alla luce delle sue esperienze, Achayo, ormai conosciuta come la “linguista del vino“, ritiene che il settore abbia bisogno di una revisione completa. Il linguaggio usato per descrivere i sapori, il marketing sulle bottiglie, persino il modo in cui viene strutturata l’educazione al vino – tutto deve evolversi. E non è la sola. Fa parte di un movimento che mira a decolonizzare il vino (un termine molto attuale) rendendolo più accogliente e pertinente per un pubblico più ampio.
Ricostruire le fondamenta
Prendiamo il Wine and Spirits Education Trust (WSET), lo standard di riferimento nel mondo di lingua inglese per la conoscenza del vino. Fondato nel Regno Unito per un mercato specifico, è ora diffuso in tutto il mondo, senza adattarsi ai nuovo luoghi dove si è stabilito. È una “mentalità coloniale“, dice Achayo, che non riconosce i sapori e i riferimenti culturali unici di differenti provenienze.
La chiave? Venire incontro alle persone. I sommelier di Grape Witches, nella canadese Toronto, riflettono con le proprie scelte la multiculturalità della città in cui vivono: promuovono abbinamenti non convenzionali, perché, dicono, il vino non dovrebbe essere solo per le “signore bianche che fanno festa con altre signore bianche“.
Oltre la bottiglia
Minimo, un negozio di Oakland, in California, adotta un approccio diverso. Dopo avere abbandonato del tutto il vocabolario standard, si è concentrato sulle conversazioni con i clienti, evidenziando le qualità uniche di ogni bottiglia. Questo non solo significa personalizzare l’esperienza, ma anche promuovere la diversità, mettendo in mostra vini di piccoli produttori, tra cui BIPOC e LGBTQ+.
Il colonialismo – dicono – non è solo nel linguaggio; è nel modo in cui cibo e vino vengono abbinati. I piatti piccanti, ad esempio, sono spesso relegati al Riesling o alla birra. Sommelier come Beverly Crandon stanno sfidando questa abitudine. Il suo festival annuale, “Spring into Spice“, celebra le cucine globali. Qui, persone di ogni provenienza gustano di tutto, dagli stufati guyanesi ai curry thailandesi, abbinati a tutto, dalle bollicine ai Cabernet. La salsa piccante scorre liberamente. Eventi come questi mostrano a un pubblico diversificato che il loro cibo ha un posto legittimo nel mondo del vino.
Decolonizzare il vino va oltre il semplice linguaggio, quindi. Kiki Austin, sommelier del Mujō, un sushi bar stellato di Atlanta, si concentra sulle esperienze dei clienti, chiedendo ai commensali qualcosa su di loro per offrire l’abbinamento più adeguato. Per un cliente abituale della prefettura di Saga in Giappone, suggerisce vini di quella regione, favorendo una connessione culturale. Per una coppia di neofiti ha introdotto Rose Clouds, un sakè frizzante con bacche di rosa e ibisco. “Si tratta di creare uno spazio dove le persone possano essere sé stesse“, dice.
E in Italia?
Negli Stati Uniti e in Canada, con la loro eterogeneità etnica e l’influenza di nuove generazioni di consumatori, la spinta verso un linguaggio del vino più accessibile e accogliente è inevitabile. Termini tecnici e descrizioni complesse lasciano il posto a parole evocative e riferimenti a esperienze quotidiane, rendendo il vino meno elitario e più invitante.
In Italia, il panorama vinicolo presenta caratteristiche differenti. Una lunga tradizione, un forte legame con l’identità regionale e un pubblico prevalentemente domestico rendono il cambiamento più graduale. Tuttavia, anche qui emergono segnali di evoluzione. L’apertura a nuovi mercati internazionali, l’innovazione portata dai giovani vignaioli e la necessità di attrarre nuovi consumatori spingono verso un linguaggio più inclusivo, capace di valorizzare la tradizione senza precludere l’accessibilità.
L’obiettivo non è cancellare la storia e la ricchezza del linguaggio del vino, ma piuttosto arricchirlo e renderlo più rappresentativo di un mondo sempre più multiculturale. Un nuovo vocabolario può essere un potente strumento per avvicinare nuove generazioni al vino, promuovere la cultura enogastronomica e far scoprire la bellezza di un prodotto che affonda le sue radici nella storia e nella tradizione.
In questo processo di evoluzione, è fondamentale trovare un equilibrio tra tradizione e innovazione, tra la tutela del patrimonio culturale e la necessità di comunicare in modo efficace con un pubblico in continua trasformazione. Il linguaggio del vino non deve snaturarsi, ma piuttosto evolversi per rimanere un ponte tra passato, presente e futuro, capace di raccontare la storia di un prodotto unico e inimitabile.
L’ascesa di un nuovo linguaggio del vino rappresenta un’opportunità per il settore di aprirsi a nuovi orizzonti, valorizzare la diversità e avvicinare un pubblico più ampio. È un segno di un mondo in evoluzione, dove la tradizione si rinnova e la cultura del vino si nutre di nuove esperienze e sensibilità.