I vigneti più alti del mondo: dove il cielo incontra la vite

Quando faccio la lezione Viticoltura nei Paesi Extra-Europei ai nostri corsi AIS, rivolgo sempre questa domanda ai corsisti. A che quota si trova il vigneto più in alto? Nessuno ci azzeca mai, i più coraggiosi osano dire 2.000 ma nei loro occhi leggo che non ci credono. Non lo faccio per esibizionismo nozionistico, ma semplicemente per scardinare l’idea piuttosto diffusa che il limite altimetrico della vite sia collocabile attorno ai 1.000 metri. E invece, chi come me ha viaggiato nei paesi andini, Argentina e Cile soprattutto, sa benissimo che le vigne sulle Ande sono molto più in alto. C’è Altura Máxima della cantina Colomé che si trova a 3.111 metri sul livello del mare, tra le vette maestose delle Ande argentine, ed era ufficialmente riconosciuto come il vigneto più alto del mondo fino al 2018. Il primato ufficiale ora spetta ad un vigneto di 67 ettari che si trova in Tibet a 3.563,31 metri slm. Si chiama “Pure Land & Super-High Altitude Vineyard” e si coltivano vidal, moscato e una varietà locale chiamata Bein Bing Hong. Tuttavia, non essendoci mai stato non posso dirvi molto di più. Le altitudini elevate sono così: ambiente estremo, ostile, con aria rarefatta, sole implacabile durante il giorno e temperature sottozero di notte, apparentemente inadatto alla vita. Eppure, proprio qui Donald Hess, visionario imprenditore svizzero e proprietario della Bodega Colomé, nel 2003 annunciò la sua intenzione di piantare viti a un’altitudine mai sperimentata prima. Le sfide sembravano insormontabili: radiazioni ultraviolette del 25% più intense rispetto ai vigneti tradizionali, escursioni termiche giornaliere che superano i 20 °C, precipitazioni minime e terreni poveri di nutrienti. Ma Hess aveva intuito ciò che nessuno aveva osato immaginare: che queste condizioni estreme potessero generare un vino di carattere unico, inimitabile.
La geografia dell’estremo
Altura Máxima si trova nella Valle Calchaquí, provincia di Salta, nel nord-ovest argentino. Il paesaggio è dominato da formazioni rocciose multicolori, cactus giganti che punteggiano l’orizzonte come sentinelle silenziose, e un cielo di un blu intenso da sembrare irreale. La valle è protetta dalle catene montuose circostanti, il clima è secco, con precipitazioni annuali che raramente superano i 150 millimetri. Il profilo idrologico di questa zona è peculiare: l’acqua presente nel sottosuolo proviene principalmente dallo scioglimento delle nevi andine e scorre in complessi sistemi sotterranei prima di affiorare in alcune sorgenti naturali. I suoli sono prevalentemente di origine alluvionale con uno strato superficiale sabbioso-limoso che nasconde depositi di rocce metamorfiche ricche di ferro e manganese risalenti al Precambriano. Questa combinazione geologica, insieme alle forti escursioni termiche, conferisce ai vini una mineralità e un profilo aromatico impossibili da replicare altrove.

Il protagonista: il malbec d’altura
La varietà regina di questo vigneto estremo è il malbec, che qui trova un’espressione completamente nuova rispetto ai suoi cugini coltivati ad altitudini inferiori. I grappoli presentano acini piccoli, dalla buccia spessa e ricca di antociani, risultato diretto dell’intensa radiazione solare. Il ciclo vegetativo delle viti è significativamente più lungo che in pianura, con una maturazione fenolica che può protrarsi fino a 45 giorni in più rispetto ai vigneti della stessa varietà situati a quote inferiori. Questo permette un accumulo di precursori aromatici e polifenoli del tutto unico. Il vino che ne deriva sfida ogni catalogazione tradizionale, collocandosi in una dimensione qualitativa a sé stante. Al naso offre note di frutti neri concentrati, violette alpine e una distintiva mineralità che richiama la pietra bagnata dopo un temporale, accompagnate da sottili sentori di erbe aromatiche d’alta quota e grafite. Al palato si rivela potente ma paradossalmente elegante, con tannini setosi che ricordano la grana fine del cachemire, un’acidità vibrante ben integrata con la struttura e un finale straordinariamente lungo con ritorni di spezie e piccoli frutti rossi. Una delle caratteristiche più sorprendenti è la sua capacità di mantenere una gradazione alcolica moderata (raramente supera i 14 gradi) nonostante la concentrazione, grazie proprio alle particolari condizioni climatiche d’altura.

Viticultura eroica: le sfide quotidiane
Coltivare uva a queste altitudini richiede pratiche agronomiche completamente ripensate. Gli operai lavorano in condizioni di ossigeno ridotto, alternando periodi di attività a necessari momenti di riposo. La maggior parte dei lavori viene fatta manualmente, poiché l’uso di macchinari su pendii così ripidi e a queste altitudini risulta spesso impossibile. La gestione del verde è particolarmente delicata: le potature vengono effettuate con estrema cautela per trovare il perfetto equilibrio tra esposizione dei grappoli alla radiazione solare (necessaria per la maturazione) e protezione dagli eccessi di UV che potrebbero danneggiare gli acini. Le foglie fungono da naturale parasole, calibrando la luce che raggiunge i grappoli. L’irrigazione, seppur minimale, deve essere calibrata con precisione assoluta. La tenuta ha sviluppato un sistema di microirrigazione a goccia controllato da una rete di sensori che monitorano in tempo reale l’umidità del suolo e lo stress idrico delle piante. L’acqua proviene da una sorgente naturale che sgorga più in alto nel massiccio andino e viene raccolta in un bacino artificiale che garantisce autonomia anche nei rari periodi di siccità prolungata. I trattamenti fitosanitari sono quasi inesistenti, grazie all’assenza di umidità e alla purezza dell’aria che rendono questo ambiente naturalmente ostile a funghi e parassiti. Questo permette una viticoltura sostanzialmente biologica senza particolari difficoltà, anzi, con meno interventi rispetto a quanto sarebbe necessario a quote inferiori. La vendemmia è forse il momento più critico e spettacolare dell’anno viticolo. Si svolge generalmente tra fine marzo e inizio aprile, circa un mese più tardi rispetto ai vigneti di pianura. Il lavoro inizia all’alba, quando le temperature sono ancora rigide, e prosegue fino a quando il sole non diventa troppo intenso. I vendemmiatori indossano cappelli a tesa larga e creme solari ad alta protezione, ma nonostante queste precauzioni, non è raro che alla fine della stagione mostrino segni di scottature sul viso e sulle mani. Una volta raccolte, le uve vengono rapidamente trasportate in cantina in piccoli furgoni refrigerati per preservarne la freschezza. Un intero vigneto può richiedere fino a due settimane per essere completamente vendemmiato, un tempo molto più lungo rispetto ai vigneti convenzionali, a causa delle difficoltà logistiche e delle pause forzate imposte dalle condizioni climatiche estreme.

Il team di Colomé: maestri dell’estremo
Il team di Colomé è guidato dall’enologo Thibaut Delmotte, francese di nascita ma argentino d’adozione. Arrivato a Colomé nel 2005 dopo significative esperienze in Borgogna e Bordeaux, ha saputo reinterpretare il suo bagaglio tecnico europeo, adattandolo alle condizioni estreme delle Ande. Come lui stesso ha dichiarato in una recente intervista: “Quando sono arrivato qui ho dovuto dimenticare la metà di ciò che sapevo e reinventare l’altra metà”. Al suo fianco lavora un team di agronomi locali, profondi conoscitori del territorio, guidati da Anselmo Hidalgo, figura quasi leggendaria in Salta per la sua capacità di “leggere” i vigneti. Hidalgo discende da una famiglia che coltiva viti in queste zone da cinque generazioni e integra saperi ancestrali andini con moderne tecniche di gestione del vigneto. È a lui che si deve la mappatura dettagliata dei microterroir di Altura Máxima e l’identificazione delle parcelle più vocate per ciascuna varietà. Il lavoro in vigna segue i principi dell’agricoltura biodinamica, con particolare attenzione al calendario lunare che, a queste altitudini, assume un’influenza ancora più marcata sulla fisiologia della vite. In cantina, Delmotte utilizza esclusivamente lieviti indigeni e fermentazioni spontanee, con lunghe macerazioni a temperature più basse del consueto per preservare la freschezza aromatica tipica dell’alta quota.

La gamma produttiva: un viaggio verticale
La produzione di Bodega Colomé comprende una gamma che racconta la diversità di terroir della Valle Calchaquí attraverso diversi livelli altitudinali: Colomé Estate (1.700-2.300 metri): la linea principale con Malbec, Torrontés, Tannat e Cabernet Sauvignon. Vini con grande intensità aromatica e struttura elegante, espressione classica dell’alta quota salteña. Lote Especial (2.300-2.700 metri): vini parcellari che esplorano micro-terroir specifici, vinificati separatamente. Qui troviamo varianti di Malbec che mostrano sottili differenze legate all’esposizione e alla composizione del suolo. Auténtico (2.700-3.000 metri): un Malbec prodotto da vigne vecchie pre-fillossera, alcune risalenti al 1854, patrimonio genetico unico. Vinificato con tecniche minimaliste, esprime la purezza assoluta della varietà. Altura Máxima (3.111 metri): il gioiello della corona, prodotto in quantità limitatissime e solo nelle annate eccezionali. Oltre al celebrato Malbec, recentemente sono state introdotte micro-vinificazioni di Cabernet Franc e Pinot Noir con risultati sorprendenti. Linea 1831 dedicata alla fondazione della cantina e declinata con un Malbec ed un Cabernet Sauvignon.

Laboratorio enologico a cielo aperto
Altura Máxima non è solo un vigneto produttivo, ma un vero laboratorio sperimentale a cielo aperto dove enologi e agronomi studiano l’adattamento delle viti in condizioni estreme. Dal 2015 Colomé collabora con l’Università di Davis (California) e l’INTA (Istituto Nazionale di Tecnologia Agricola argentino) in un programma di ricerca pluriennale che monitora ogni aspetto della viticoltura d’alta quota. I ricercatori hanno installato una rete di sensori che registrano in tempo reale decine di parametri: dalle radiazioni UV alla temperatura del suolo a diverse profondità, dall’umidità relativa alla velocità del vento, dalla disponibilità idrica alla pressione atmosferica. Contemporaneamente, campioni di foglie e acini vengono analizzati regolarmente per studiare le risposte fisiologiche e biochimiche delle piante a queste condizioni estreme. Uno degli aspetti più interessanti emersi finora riguarda i meccanismi di difesa sviluppati dalle viti contro le radiazioni ultraviolette. Le piante producono quantità eccezionali di composti fenolici, non solo negli acini ma anche nelle foglie e nei tralci, come strategia protettiva contro i raggi UV-B particolarmente intensi a queste altitudini. Questi stessi composti sono in gran parte responsabili della straordinaria complessità aromatica e strutturale dei vini. I dati raccolti permettono di comprendere meglio come le piante rispondano allo stress idrico, alle radiazioni intense e alle escursioni termiche marcate – tutti fattori che, con il riscaldamento globale, interesseranno progressivamente anche zone viticole tradizionali.

Enoturismo d’alta quota
Raggiungere Altura Máxima non è semplice. Da Salta, il capoluogo provinciale, occorrono circa quattro ore di viaggio su strade che si inerpicano tra gole profonde e passi montani mozzafiato. Il percorso attraversa la celebre Ruta 40, una delle strade più iconiche dell’Argentina, snodandosi poi su tracciati di terra battuta che seguono antichi sentieri precolombiani. L’esperienza ripaga ampiamente lo sforzo, reso più accettabile se prima e durante il viaggio bevete del Matè. La tenuta Colomé accoglie i visitatori in una struttura dal look coloniale, accanto alla cantina c’è un museo dedicato all’artista americano James Turrell, specializzato in installazioni che esplorano la luce e lo spazio. I visitatori possono partecipare a degustazioni verticali dei diversi Malbec prodotti alle varie altitudini, accompagnati da piatti della cucina regionale andina. Nel periodo della vendemmia, l’azienda offre l’opportunità di partecipare alla raccolta delle uve, un’esperienza fisicamente impegnativa ma profondamente immersiva. Un programma speciale porta i più avventurosi fino ai vigneti di Altura Máxima, dove i vini vengono presentati nel contesto che li ha generati, con vista sulle vigne che sembrano letteralmente toccare il cielo.

La nuova frontiera dell’alta quota
Il successo di Altura Máxima ha ispirato altri produttori a spingersi sempre più in alto, dando vita a quella che oggi viene definita “la nuova frontiera verticale del vino”. Negli ultimi anni, nuovi progetti viticoli sono nati sulle Ande, non solo in Argentina ma anche in Bolivia e Perù, creando un’inedita geografia dell’enologia d’alta quota. In Bolivia, nella regione di Tarija, Bodegas Aranjuez ha piantato vigneti a 2.850 metri che producono un sorprendente Tannat, mentre la Bodega Uvairenda sta ottenendo risultati notevoli con il Syrah a 2.760 metri. Più a nord, nei pressi del lago Titicaca, il progetto Singani 63 dell’attore e regista Steven Soderbergh sta recuperando antichi vigneti di muscat d’Alexandria a oltre 3.000 metri per produrre l’acquavite nazionale boliviana. In Perù, la cantina Intipalka nella Valle di Urubamba (la sacra valle degli Inca) sta producendo interessanti Malbec e Cabernet Sauvignon a 2.800 metri. Nel frattempo, in Argentina, oltre a Colomé, produttori come Bodega Tacuil e Maal Wines stanno esplorando nuove altitudini e microterroir nella zona di Cafayate e della Valle Calchaquí. Quello che accomuna tutti questi progetti è un nuovo approccio alla viticoltura di montagna che non cerca più di replicare modelli di pianura, ma sviluppa tecniche specifiche per queste condizioni estreme. Interessante è anche l’emergere di una nuova generazione di enologi “d’alta quota”, specializzati in queste peculiari condizioni di vinificazione, che si stanno scambiando esperienze e conoscenze attraverso un simposio annuale che dal 2018 si tiene a rotazione tra Argentina, Bolivia e Perù. Questi vigneti d’alta quota rappresentano non solo una sfida tecnica, ma anche un esempio di come la vite possa adattarsi e prosperare anche negli ambienti apparentemente più ostili. Inoltre, stanno contribuendo a rivalutare economicamente territori marginali, spesso abitati da comunità indigene che ora trovano nuove opportunità di sviluppo sostenibile.

Degustazione: la mia esperienza con Altura Máxima
Ho avuto l’opportunità di degustare l’Altura Máxima Malbec assieme ad altri vini di Colomé nel 2013 durante il mio soggiorno ma non ricordo che annata fosse. Avevo assaggiato a Mendoza molti altri Malbec e ricordo che li avevo trovati piuttosto standardizzati, sembravano prodotti con lo stampino (un buon stampino comunque) – fruttati, concentrati e dominati dal legno – questo vino invece staccava del tutto. C’era un naso con una insolita freschezza aromatica, e una bocca con una tensione acida sorprendente (ma non del tutto inattesa) per un Malbec. Non è facile trovarlo in Italia – la produzione è limitata a circa 9.000 bottiglie per annata – ma alcune enoteche specializzate in vini sudamericani lo importano, a un prezzo tutto da verificare. In ogni caso, credo valga sempre la pena di gettarsi a capofitto sulle novità anche se trovarvi l’impronta andina in un vino, se non la conosci, è pura illusione. Se avrete la fortuna di assaggiare uno di questi vini rari, non limitatevi a valutarlo secondo i parametri tradizionali. Chiudete gli occhi e lasciate che vi trasporti sulle pendici di quelle montagne maestose, dove l’aria è così sottile che il respiro si fa corto e dove il cielo sembra così vicino da poterlo toccare. Solo allora capirete veramente cosa significa un sorso di Altura Máxima: non è solo un vino, è un viaggio in bottiglia.

