Il futuro del vino è in Galles?
L’industria vinicola globale, simboleggiata dalla crisi di Bordeaux, ha bisogno di un “riavvio” radicale. Secondo l’esperto Valentin Blattner, il futuro risiede in vitigni resistenti, sostenibilità reale e vendita diretta. Un sorprendente reportage della testata Wine-Searcher individua nel Galles, regione emergente e improbabile, l’incarnazione di questo nuovo modello. Qui, piccoli produttori artigianali stanno già creando vini di carattere da vitigni ibridi, con pratiche agricole rigenerative.
Mentre a Bordeaux si interrogano su come sradicare migliaia di ettari di vigne per sopravvivere alla propria crisi, un’eresia prende forma. Sboccia nel luogo più impensabile: il Galles, una terra sferzata da venti atlantici e piogge insistenti, da sempre ai margini della mappa enologica mondiale. Eppure, è proprio da qui che potrebbe partire la rivoluzione. A suggerire questa prospettiva quasi sovversiva è un notevole articolo di Chris Boiling per la testata Wine-Searcher, che raccoglie la provocazione di Valentin Blattner, pioniere svizzero dei vitigni resistenti, e la trasforma in un’indagine sul campo.
L’idea di fondo è che il vecchio mondo del vino stia scricchiolando sotto il peso delle sue stesse regole. Bordeaux ne è l’emblema: un sistema ingessato, incapace di reagire alla crisi climatica e al cambio dei gusti, che come unica soluzione propone di estirpare ciò che per secoli ha rappresentato la sua ricchezza. Blattner la definisce una resa. La sua ricetta per il futuro è un manifesto radicale: abbandonare i vitigni iconici ma fragili, abbracciare ibridi resistenti, reinventare il rapporto con la terra e con il consumatore.
Un’utopia? Forse, ma in Galles è già una vibrante realtà. Libera dal fardello di disciplinari e tradizioni, questa terra di outsider è diventata la fucina di un’eresia enologica. Le armi di questa rivoluzione silenziosa hanno nomi quasi sconosciuti: solaris, rondo, seyval blanc. Non sono semplici alternative ai blasonati pinot noir e chardonnay, ma la risposta intelligente a un clima ostile. Maturano in fretta, sfidano le malattie e, nelle mani di vignaioli-artigiani, si trasformano in vini sorprendenti per complessità e freschezza.
L’articolo ci porta all’interno di queste realtà pionieristiche. A Velfrey Vineyard, un pullman di turisti americani scopre un mondo dove un robot taglia l’erba e la lana di pecora sostituisce i diserbanti. È la prova che un altro modello economico è possibile, basato sull’esperienza diretta, sulla trasparenza e sulla vendita senza intermediari.
Ma è a Hebron Vineyard che l’eresia raggiunge il suo apice. Qui, Paul Rolt pratica un’agricoltura che definire biologica è riduttivo; è un patto con la natura. Zero interventi, né in vigna né in cantina. Le siepi crescono selvagge per ospitare la biodiversità, i salici intrecciati creano una pergola vivente che protegge e sostiene le viti, i tralci potati vengono trasformati in biochar per arricchire il suolo. “Non camminiamo sulla terra“, spiega Rolt con parole che suonano come un manifesto, “ma sul tetto di un nuovo regno che si trova sotto i nostri piedi, e dobbiamo rispettarlo“.
Questo rispetto quasi sacrale per l’ecosistema si traduce in vini che sono la pura espressione del territorio. Vini vivi, vibranti, e a volte, deliberatamente leggeri. Il Rondo Rosado di Hebron, con i suoi 6 gradi di alcol, è un pugno nello stomaco per i puristi e una rivelazione per una nuova generazione di consumatori. È un vino che non vuole stupire con la potenza, ma dialogare con il cibo, sussurrare anziché urlare.
Ecco, dunque, la provocazione che emerge dal pezzo di Wine-Searcher: il futuro del vino non risiede necessariamente nel prestigio dei terroir baciati dal sole, ma nel coraggio di sperimentare in angoli di mondo umidi e testardi. Laddove le difficoltà aguzzano l’ingegno, nascono i modelli più resilienti. Il Galles, con i suoi piccoli artigiani-filosofi e i loro vini eretici, ci sta mostrando che per salvare il vino, forse, bisogna prima avere il coraggio di tradirlo.