Il mito dell’acidità
“La psicanalisi è un mito tenuto in piedi dall’industria dei divani”
W. Allen
Ho bevuto uno Champagne non molto stimato dagli enofili, per niente di moda e soprattutto poco acido. Sono tre elementi che suggerirebbero con forza di non scriverci sopra un post. Perché per recensire uno Champagne la bottiglia ha da essere cool, ovvero sulla bocca – e poi nell’esofago, e poi nella pancia – degli enofili più selettivi ed esigenti. Meglio se è di un raro e scorbutico raccoglitore-manipolatore, con vigne in biodinamica. Meglio se la cuvée è tirata in 1.500-2mila bottiglie e se la sboccatura risale al 1978. Meglio ancora se il sorso è aggredito da un istrice di acidità: mille aculei che si conficcano nel palato e vi permangono fino alla successiva estrazione chirurgica.
“Senti che lama di acidità, è fantastico”.
Acidità e qualità
In senso storico l’equazione acidità/qualità ha radici all’incirca trentennali. Avendo iniziato a occuparmi di assaggi verso la fine degli anni Ottanta, ho assistito in diretta al peculiare fenomeno. Anzi, ne sono stato parte attiva. Ricordo bene la felicità palatale nel bere un vino di viva acidità, che si era finalmente scrollato di dosso il quintale di zuccheri residui, surmaturazioni, sovraestrazioni tanniche, eccessi alcolici di molti prodotti del cosiddetto Rinascimento enologico italiano.
Era un fenomeno reattivo. Anestetizzato da anni di fagottoni imbevibili, mollicci, senza forma, ritrovare la vocazione alla tavola in un vino che finalmente ti ripuliva la bocca da quel catrame era per me una gioia.
Una gioia condivisa da centinaia di appassionati dell’epoca, più o meno alla metà degli anni Duemila.
Dopodiché, in maniera analoga alla deriva che ha reso gli aggettivi “minerale” e “salino” gli chouchou (pron. sciusciù) dell’enofilo medio, l’acidità non era più sufficiente: occorreva che fosse una super acidità, un trionfo di “verticalità”, un masochistico infliggersi la pena dell’accartocciamento delle mucose con bianchi a pH 0,3 e acidità fissa a 15.

Vini di moda
A tutt’oggi, parafrasando l’anziano comico americano, “l’acidità è un mito tenuto in piedi dai produttori di vini di moda”. Scrivo vini di moda per non sparare indiscriminatamente sui vini naturali, categoria dai numeri ormai smisurati e quindi contenitore di esiti diversissimi tra loro.
Ma non c’è dubbio che alcuni vinnaturisti estremi giochino proprio sul proporre pozioni inavvicinabili per riduzioni, ossidazioni, deviazioni batteriche, e soprattutto per una sferzata acida degna di uno sturalavandini.
Il Laurent-Perrier Brut 2012 è nella sua presente fase evolutiva un vino al contrario piuttosto morbido, avvolgente, privo di spigoli. Biscottato nei profumi, calibratamente evoluto ma ancora tonico al gusto, non avrà la profondità e lo slancio eroico delle cuvée migliori, però si beve con una soddisfazione rara. L’acidità c’è, attenzione, ma nei limiti del codice penale e del buon gusto. Una buona e serena bevuta. Come la offrono cent’altri vini finiti nel Purgatorio dei “non abbastanza acidi”.

La foto di apertura è di Pinar Kucuk su Unsplash.