Il prezioso regalo di Dioniso
Il vino ha attraversato la Grecia dal Medio Oriente, fino ad arrivare in Magna Grecia e poi a Roma e da qui nel vasto Impero, diventando uno degli elementi fondamentali della tavola mediterranea.
Dio della vite e del vino, Dioniso attraversò molti territori su un carro trainato da pantere con al seguito un festoso corteo di musici, danzatrici, baccanti, satiri e sileni. In tutti i luoghi che visitava portava la conoscenza della vite, del vino e del teatro. Gli si attribuiva, inoltre, il ciclo vitale degli alberi e dei fiori, ma era considerato anche il dio liberatore dell’energia vitale, dell’ebbrezza come mistica esaltazione e dell’estasi.
Uno dei suoi doni più apprezzati, il vino, era un elemento centrale nella quotidianità greca sin dal secolo VIII a.C. come attestano le numerose opere letterarie ma anche l’affascinante arte ceramica greca che ne evidenzia la presenza soprattutto durante i banchetti, esempi di condivisione e ospitalità degli antichi.
Convivialità greca
I pasti dei greci erano suddivisi in tre momenti: l’akrátisma, ossia la colazione, l’áriston, il pasto di mezzogiorno e il banchetto serale, il più importante della giornata, suddiviso in due momenti ben distinti: il deiîpnon, la cena, con la sola condivisione del cibo, senza il vino, al quale potevano accedere anche le donne e i bambini, e il successivo symposion (letteralmente “bere insieme”), dedicato al solo consumo del vino, con qualche stuzzichino, ma anche alla conversazione, ai canti poetici e ai giochi di abilità. Questa seconda fase del banchetto era un’occasione di convivialità esclusivamente maschile, vietata ai bambini e alle donne, ma non ai giovani servitori dall’eleganza nei modi e nei corpi, agli artisti, alle etere (hetairai), cortigiane, danzatrici e suonatrici di lyra e di aulòs, uno strumento a fiato, e agli stranieri, sempre ben accolti e ospitati.
Sebbene vi siano notevoli differenze tra il banchetto ateniese, pubblico e aperto alla comunità, quello di Sparta, un austero pasto collettivo, e di Creta, ricco e sfarzoso, la pratica del simposio restò costante dall’epoca omerica del VIII sec a.C. all’epoca ellenistica (dal 300 a.C. al 146 d.C.). Ma è nel cuore del periodo classico, nell’Atene del V e IV secolo a.C., che il banchetto greco s’impreziosisce, si codifica, si istituzionalizza e si arricchisce di significati sociali, culturali, filosofici e, naturalmente, edonistici.
Una riunione tra pari
Un simposio poteva durare fino al giorno seguente: era un lungo evento cadenzato da regole, riti e azioni dai ritmi e dai tempi prestabiliti. L’ambiente, il piacere di stare insieme, l’atmosfera festosa, la condivisione del cibo rappresentavano la scenografia della rappresentazione del banchetto, ma il protagonista indiscusso era il vino. Si sacrificava sull’altare in omaggio agli dèi, si spargeva sul pavimento come offerta recitando una preghiera, si utilizzava per un giuramento solenne o si beveva insieme durante i momenti conviviali del simposio: il vino incarnava l’aspetto sacro, comunitario e civico della convivialità greca.
Ben predisponeva alle relazioni, dava piacere e vigore, portava alla serenità (esukìa) e all’euforia, favorendo la creatività e l’eros. Permetteva una percezione di benessere intellettuale, fisico e spirituale, a condizione però che l’assunzione fosse equilibrata. Questo era il principio base del simposio: il vino non veniva consumato puro, considerato comportamento da barbari, ma sempre annacquato, in una giusta proporzione (in genere 1/4 di vino e ¾ di acqua) evitando di ubriacarsi ma raggiungendo un buon stato di ebrezza. In un ideale equilibrio, si imparava, con saggezza, la giusta misura.
Prendere parte al simposio costituiva una grande occasione sociale, culturale ma anche, e soprattutto, rituale e religiosa. Era una riunione tra pari, cittadini elitari e maschi: definiva l’appartenenza a una comunità che condivideva gli stessi valori, sugellati proprio dall’assunzione della ‘bevuta insieme’ che rinsaldava vincoli di affetto, di amicizia e di solidarietà civica.
Il simposio era poi un momento di formazione importante all’interno della polis greca e di scambio: essere uomini colti voleva dire conoscere le regole di convivenza, rispettarle e farle rispettare, ma anche riconoscere il proprio ruolo all’interno della comunità e, per estensione, della polis, mantenendo un distintivo modo di essere e di vivere. Non a caso la partecipazione al simposio era concessa anche ai giovani: la paidéia, ossia la formazione o educazione, era il modello pedagogico nell’ Atene nel V secolo a.C. che si basava sull’istruzione scolastica e sulla preparazione fisica dei giovani ma anche sull’apprendimento dei comportamenti “armonici” e corretti che potessero renderli degni cittadini greci. Frequentare un simposio voleva dire imparare a ragionare, a parlare in pubblico, a comporre poesie e a comportarsi a tavola, tutti elementi distintivi: fare esperienza del bere, poi, senza esagerare, seguendo una giusta misura, era un modo per apprendere a controllare i propri impulsi.
Il vino condiviso e la sua consacrazione attraverso preghiere e canti in onore degli dèi, infine, era un’esperienza mistica in stretta comunione con la divinità unendo l’anima razionale a quella irrazionale.
Ma come si svolgeva il simposio?
Prima la condivisione del cibo
All’imbrunire arrivavano gli ospiti, puliti, profumati e ben vestiti, una perfetta toilette rituale che definiva lo status sociale di appartenenza; una volta accolti nell’andròn, la “sala da pranzo degli uomini”, gli schiavi lavavano loro le mani in acqua aromatizzata, e toglievano loro le scarpe: erano così pronti al banchetto serale.
Il padrone di casa decideva la posizione degli ospiti in base alla loro importanza e questi prendevano posto sdraiandosi con il volto rivolto verso il centro della stanza sui letti (klinai), condivisi con altri due o tre invitati, e disposti a ferro di cavallo.
Iniziava così la prima parte del banchetto, il deiîpnon, la cena. Di fronte a ogni due partecipanti vi era un tavolino sul quale i servitori poggiavano vassoi con le pietanze offerte.
Finita questa prima parte, venivano ripuliti i tavoli, le tazze e pulito il pavimento. Si faceva spazio nella stanza, in modo da poter comodamente ospitare l’intrattenimento successivo.
Il simposio
Sacrale era l’abluzione delle mani, mentre corone di fiori, mirto, foglie di edera e di alloro adornavano il collo e la testa dei partecipanti con una funzione iniziatica.
A dirigere il simposio veniva eletto, spesso a dadi, un simposiarca, il vero regista del banchetto, colui che ne decideva ogni dettaglio: dal tipo di discorsi ai canti e ai giochi con i quali intrattenersi, dai modi del corteggiamento al grado di ubriachezza da raggiungere attraverso tempi e modi del brindisi. Decideva anche la quantità di vino da mescolare con l’acqua nel grande vaso del krater o cratere, posto simbolicamente al centro della stanza, emblema del simposio e contenitore dello stesso liquido dal quale tutti avrebbero attinto.
Tutto era pronto per il rito del vino. La libagione, ossia lo spargimento a terra di alcune gocce, veniva accompagnata da canti (peana), inni e voti (synomosia), invocazioni agli dèi invitandoli a partecipare con benevolenza al banchetto, stabilendo un momento di connessione tra i partecipanti e, soprattutto, tra l’uomo, la natura e gli dèi, in particolare con Dioniso, sempre presente sulla ceramica greca . Il passaggio di uno stesso calice, da sinistra a destra, di bocca in bocca, ordine rispettato anche per la conversazione e la declamazione di poesie e opere, sugellava poi l’unione e la creazione di una comunità.
In quest’atmosfera ricca di sacralità, si dava inizio alla festa. Il cratere era pronto per essere vuotato: gli schiavi vi attingevano la bevanda con il kiathos, una tazza utilizzata come mestolo, per versarlo nella kylix, coppa potoria da distribuire ai presenti, che non doveva mai restare vuota. Una volta che il simposiarca aveva stabilito il numero delle coppe da sorseggiare, si beveva alla salute di ognuno dei presenti. Le suonatrici prendevano posizione, pronte ad allietare i convitati fino a notte fonda.
A questo punto i commensali potevano dedicarsi al momento centrale del loro incontro, la conversazione che era sempre corale e mai per piccoli gruppi: verteva sull’arte, sull’attualità, sulla politica e la filosofia o, anche, sui presenti.
L’ebbrezza dionisiaca
L’ultima parte del simposio era dedicata al divertimento. Le due fasi iniziali costituivano una preparazione alla hedoné, il piacere mentale e soprattutto fisico che veniva acquisito dopo il raggiungimento dell’ebbrezza dionisiaca. Si ascoltavano poesie accompagnate da musica, si assistevano a spettacoli di danza e a esibizioni di acrobati e si organizzavano giochi di destrezza.
La consumazione del vino prevedeva, oltre al piacere, di rendere più sciolta la mente e cancellare i freni inibitori in modo da godere di un divertimento spensierato, che poteva, talvolta, andare oltre il senso comune della moralità. Scopo ultimo del bere era quindi la gioia, che poteva essere raggiunta da lunghe dissertazioni filosofiche e poetiche o, per altri, grazie alla partecipazione a giochi, danze, canti e, infine, all’eros. In molte rappresentazioni del simposio vi è raffigurato il gioco di destrezza kottabos: i convitati dovevano colpire un bersaglio lanciando, con un colpo di polso, il fondo di vino rimasto nella kylix.
A simposio terminato, poteva accadere che si formasse il kòmos, una sorta di corteo festoso, sempre parte del rito del vino, composto dai partecipanti che, a piedi o su carri, inneggianti Dioniso, attraversavano la città, cantando e suonando il flauto, abbandonandosi a momenti di sfrenatezza.
Un nuovo giorno iniziava e c’era già il pensiero al nuovo banchetto da organizzare.