Il vigneto Friuli perde i suoi padri
Tutte le rivoluzioni hanno bisogno di sedimentare comportamenti, tensioni, esperienze, spinte ideologiche. Anche nel mondo del vino accade questo e il Friuli Venezia Giulia ne fu esempio quando, nei primi anni Sessanta del Novecento, condensò tutta una serie di condizioni che determinarono una rivoluzione agraria destinata a cambiare la qualità del vino e la sua percezione sul mercato. Per trovare i prodromi di questo mutamento è necessario riferirsi al 1963, l’anno della Legge 930 che istituì le Doc, ma anche l’anno di nascita della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia che con la specialità si ritrovò la competenza primaria in tema di agricoltura. Così quando, l’anno dopo, lo Stato decide di vietare nuovi contratti di mezzadria – accelerando l’abbandono dei poderi e un brusco passaggio alla meccanizzazione – la Regione pensò di curare lo spopolamento delle colline finanziando la specializzazione dei vigneti e trasformando una viticoltura tendenzialmente promiscua. Ci furono allora degli uomini lungimiranti, visionari e determinati che intravvidero il futuro dell’enologia friulana. Due di loro se ne sono andati recentemente a dieci giorni di distanza. I loro nomi sono Marco Felluga e Pietro Pittaro.
Felluga, il patriarca del Collio
Marco Felluga, morto a 96 anni il 3 aprile 2024, era il penultimo di sette figli. Nacque sull’isola di Grado nel 1927, dove il padre Giovanni era arrivato da tre anni migrando da Isola d’Istria (nell’attuale Slovenia) dove il nonno Michele gestiva un’attività di commercio di vino attiva dalla metà del 1800. Nel 1938 la famiglia si spostò un’altra volta, fissando casa a Gradisca d’Isonzo (Gorizia) e diciotto anni dopo, terminati gli studi di enologia a Conegliano, Marco Felluga lascia i genitori e crea, sempre a Gradisca, la sua azienda. Iniziò così, coniugando tradizione e innovazione, un percorso professionale di un uomo che ha lasciato ampie tracce non solo nell’enologia friulana. Alla spinta economica degli anni Sessanta si unì la percezione, da parte di Marco, delle enormi potenzialità delle colline eoceniche del nordest del Paese: dopo lo strazio di due conflitti mondiali potevano trasformarsi nel paradiso del Collio.
La svolta nello stile dei bianchi
Furono gli anni della presa di coscienza che il vino non era più solo un alimento, ma poteva assumere anche un valore culturale, diventare un prodotto edonistico capace di creare reddito. Si iniziò a comprendere che il valore doveva necessariamente passare della qualità, l’enologia esasperata doveva uscire dalle cantine e Mario Schiopetto (ecco un altro visionario) impresse una svolta epocale allo stile dei vini bianchi, introducendo il controllo della temperatura nella fermentazione e la chiarifica dei mosti. Nel 1967 Marco Felluga acquisì Russiz Superiore a Capriva del Friuli: l’aquila asburgica riprodotta in etichetta, identificò il cru dell’azienda.
“Il difetto peggiore di un produttore di vino – ammoniva spesso Marco Felluga – è credere di essere arrivato. Il vino è un progetto continuo perché ogni anno ci sono novità e cambiamenti. È importante poi amare il proprio lavoro e divertirsi a farlo”.
Il passaggio di testimone
Marco Felluga non si è mai sentito arrivato, nemmeno quando, negli anni Novanta, a guidare le due aziende arrivò il figlio Roberto (le figlie Patrizia e Alessandra avevano già le rispettive aziende vinicole). Un percorso interrotto bruscamente nel 2021 da una malattia mortale che uccide Roberto e riporta Marco in azienda a sostenere l’impegno della nipote Ilaria chiamata a prendere anticipatamente il posto del padre: “La figura del nonno – ha ricordato recentemente la giovane vignaiola – è stata fondamentale per me, perché siamo qui grazie a lui, al suo lavoro, impegno e lungimiranza”. Tutte condizioni che Ilaria Felluga si è impegnata a perseguire anche dopo il recente accordo economico con la Tommasi Family Estates, importante gruppo del vino italiano con quasi 900 ettari di vigna in diverse zone d’Italia. L’operazione ha portato l’azienda veronese ad acquisire la maggioranza di Russiz Superiore e a impegnarsi a supportare, in accordo con la famiglia Felluga, un piano di investimenti per la crescita e lo sviluppo di un’azienda che porta il nome di un patriarca del Collio.
L’enologo delle bolle
“Quando, agli inizi degli anni Settanta dissodai queste terre aride delle Grave del Friuli, sassose, piene di piste che i tedeschi avevano costruito nel 1943, pur non disponendo più di aeroplani, pensavo: qui farò una cantina. Ma qui non c’era nulla. Terra bruciata nelle torride estati. Non c’era acqua. Poi visitai i vigneti sul fiume Meduna. Sassi, sassi, ancora sassi, ma l’acqua stava a pochi metri di profondità, bastava pomparla in superficie. Tentai, ci riuscii; fu un successo”.
Pietro (Piero) Pittaro, morto a 89 anni il 24 marzo 2024, raccontava così i suoi inizi da enotecnico-vignaiolo sulle pianure di Codroipo. I campi sassosi si allargavano lungo la statale Pontebbana e le piste di cemento – nate in fretta dopo l’8 settembre 1943 per dare potenzialità aerea all’Adriatisches Kustenland – erano dure da cancellare a colpi di piccone. Ci vollero anni, ma nel 1985 la cantina fu inaugurata e iniziò a riempirsi di bottiglie in maturazione con il metodo classico.
Il talento in bottiglia
Pittaro fu un antesignano dello spumante made in Friuli con il metodo Champenoise. La prima presa di spuma la fece nel 1982 seguendo l’esempio di Manlio Collavini (ecco un altro innovatore) che mutato lo stile del Pinot grigio, producendolo in bianco quando tutti lo facevano orange, nel 1971 si era inventato anche il Grigio spumante per poi creare il metodo classico Applause.
Agli inizi degli anni Ottanta la spumantistica italiana al 95 per cento era rappresentata dal Moscato piemontese e qualche sporadico metodo classico in Trentino e Oltrepò. La Franciacorta non era ancora un brand. L’Istituto Italiano Metodo Champenois fondato nel 1975 da Antinori, Carpené, Contratto, Ferrari, Gancia e La Versa promuoveva solo la spumantistica dei propri soci. Nel 1996 (quando il termine champenois divenne utilizzabile solo dalla Francia) a rappresentare il metodo classico italiano arrivò il marchio “Talento”. Piero Pittato – stimolato da Girolamo Dorigo (un altro rivoluzionario del vino friulano) – ne fu uno dei promotori e l’azienda è tuttora socia dell’attuale Istituto Talento Italiano e ne appone il marchio su tutte le bottiglie.
Il testamento
Presidente dell’Assoenologi nel 1987 e fino al 1996, presidente dell’Unione Internazionale degli Enologi fino al 1999: Piero Pittaro ha sempre unito al suo impegno in vigna anche un’intensa attività sociale. È stato anche presidente dell’Ente Friuli nel mondo, organismo regionale che tiene i contatti e supporta le comunità delle centinaia di migliaia di friulani costretti all’emigrazione in tutti i continenti dal passato di marginalità e sottosviluppo della regione. Un’attenzione agli altri che è tornata in superficie anche alla lettura del testamento, qualche settimana dopo la morte. Irene Lenarduzzi, legale dell’azienda, dice di Pittaro: “Era molto legato ai dipendenti, festeggiava con loro i compleanni, il Natale e tutte le ricorrenze. Ci teneva a pranzare con loro”. Il vignaiolo di Codroipo ripeteva spesso ai suoi dipendenti, usando la lingua friulana: “Us lassi dut a vualtris” (“Lascerò tutto a voi”). Appariva come una battuta, ma poi la conferma nel testamento: a moglie, figlia e nipoti la legittima già garantita in vita. Ai nove dipendenti i 90 ettari a vigneto e la cantina perché “la volontà del signor Pittaro – conferma l’avvocata – era quella di portare avanti l’azienda continuando a impiegare il metodo classico di produzione dello spumante”.