Il vino e la battaglia per la sua sopravvivenza

Tra gli ultra-dazi sul vino europeo minacciati da Trump, la disaffezione delle giovani generazioni e lo sdoganamento legale delle bevande dealcolate, l’esistenza stessa del vino – almeno come presenza plurimillenaria sulle tavole di ampi strati della popolazione – è messa in dubbio.
Il vino corre il rischio concreto di diventare a breve-medio termine un bene di lusso, bevuto da élite facoltose e sottratto al consumo quotidiano (o almeno settimanale) della gente comune.
Una prospettiva impensabile anche soltanto dieci anni fa.
Eppure, mai come oggi la qualità media di una bottiglia di vino è stata tanto buona. Passata la tesi dei vini troppo densi e marmellatosi e l’antitesi reattiva dei vini arcaicizzanti, pieni in modo naif – o peggio voluto – di difetti enologici, il panorama sta raggiungendo la sintesi dei prodotti equilibrati: liberi sia dagli eccessi manipolatori della turboenologia anni 90/2000 che dalle sgrammaticature di non pochi liquidi vinnaturisti.
Ciò, beninteso, in presenza di materia prima di buon livello e di produttori capaci e onesti.

In difesa della tradizione
Come si difende allora la nostra tradizione vinica? Con battaglie di retroguardia o barricate protezionistiche? Ne dubito con forza. Le argomentazioni di alcuni volenterosi arrampicatori sugli specchi, secondo i quali l’alcol del vino è diverso e “migliore” dagli altri tipi di alcolici, sono tragicamente fuori bersaglio. Il vino contiene una sostanza nociva per la salute, occorre guardare in faccia la realtà e farci i conti. Nascondere la verità o velarla ipocritamente con eufemismi non produce alcun effetto strategico significativo, ma appare solo un mezzo tattico di corto respiro.
No, la difesa deve passare per la consapevolezza che il vino non è soltanto il “prodotto derivato dalla fermentazione alcolica, completa o parziale, del mosto di uve fresche o lievemente appassite, in presenza o in assenza delle parti solide” (Treccani) ma un oggetto culturale di straordinaria complessità semantica, impressionante per profondità del portato storico.
Il vino come oggetto culturale
Come oggetto culturale di eccezionale rilevanza va difeso nella sua unicità, comprese le parti tossiche. Il paragone suonerà iperbolico, fuori luogo, e forse lo è: la storiografia moderna ha dimostrato che figure quali Giulio Cesare o Cristoforo Colombo hanno i loro lati d’ombra, per così dire le loro tossine; almeno stando alla sensibilità moderna, che rigetta come barbare azioni che ai loro tempi avevano tutt’altra ricezione.
Ciò non significa che debbano essere abbattute le statue a loro dedicate e che la loro eredità sia da gettare in mare.
Il revisionismo selvaggio e acefalo della cancel culture/disrupt texts, che proscrive lo studio di Omero nelle università in nome del concetto astratto di un “rispetto assoluto dell’altro”, è un fenomeno simile al salutismo da combattimento, che vede ovunque una potenziale minaccia al benessere fisico e che immerge nei fatti l’individuo in una campana asettica e quasi invivibile.
È vero, dunque, che il vino fa eccezione: ma fa eccezione non perché il suo alcol è “diverso” e “più buono”, o perché “contiene resveratrolo”, o per i “benefici del paradosso francese”*, ma perché è una pietra angolare della nostra identità culturale. E come tale va difeso.

Proibire il consumo del vino?
Il legislatore ha a che fare con dei freddi dati epidemiologici, e non è affatto escluso che in un futuro più o meno prossimo venga proibito il consumo di vino tout court. Probabilmente fra qualche centinaio d’anni la battaglia per la sopravvivenza del vino sembrerà bizzarra e anacronistica come per noi leggere la pubblicità di creme di bellezza radioattive degli anni Trenta, o ancora prima, nell’Ottocento, dei benefici dell’assunzione di piombo per curare certe affezioni della pelle.
Oggi non siamo ancora a questo; per fortuna, aggiungo.
Finché la sensibilità comune e quindi la legge non cambieranno, sta alla sensibilità del singolo valutare se correre il rischio di ammalarsi bevendo un paio di bicchieri di vino al giorno. Allo stesso modo in cui valuta se uscire di casa correndo il rischio di essere investito per strada, percorrere un sentiero di montagna correndo il rischio di cadere in un crepaccio, prendere un aereo correndo il rischio che precipiti, andare dal proprio commercialista correndo il rischio di sapere che deve pagare una cartella esattoriale di 16mila euro, nuotare in mare aperto, guidare la moto, e via via.
* Il “french paradox” deriva dalla constatazione statistica che “nonostante un alto livello di fattori di rischio come colesterolo, diabete, ipertensione e un elevato apporto di grassi saturi, i francesi presentano il più basso tasso di mortalità per cardiopatia ischemica e malattie cardiovascolari tra i paesi occidentali industrializzati”, il che “può essere dovuto principalmente al consumo regolare di vino”.
La foto di apertura è di Kym Ellis su Unsplash.