Il vino si fa social: da Napoli all’America, la rivoluzione degli influencer

Un’analisi di Sarah Brown svela come le cantine USA puntano sui micro-influencer. E l’eco del convegno AIS di Napoli risuona forte: autenticità, esperienza e linguaggio semplice sono le parole d’ordine per conquistare i nuovi consumatori.
“Il mondo del vino ha bisogno di svecchiarsi, e in fretta”. L’articolo di Sarah Brown, pubblicato su Wine Business, non usa mezzi termini. E punta il dito su una delle strategie di marketing più in voga del momento: l’influencer marketing. Una pratica già ampiamente utilizzata da settori come birra, alcolici e persino cannabis, ma che il mondo del vino, “sempre lento ad adattarsi“, ha iniziato a sperimentare solo di recente.
Un ritardo che risuona con le parole di Sandro Camilli, presidente nazionale AIS, che al convegno “Il linguaggio del vino. Dalla formazione ai social” di Napoli ha sottolineato la necessità di rinnovare la comunicazione, spesso ancorata a modelli pre-internet.
Eppure, i numeri parlano chiaro. Secondo un sondaggio di IWSR Drinks Market Analysis, il 40% dei consumatori di vino statunitensi si affida ai social media per informazioni e consigli. Una percentuale che sale tra i Millennials e la Generazione Z. Insomma, i giovani (e non solo) cercano il vino online. E le cantine?
L’articolo di Brown si concentra sul ruolo dei micro-influencer (quelli con poche migliaia di follower), considerati una “risorsa preziosa e ancora poco sfruttata“. Il loro punto di forza? La capacità di costruire relazioni autentiche con la propria community, generando raccomandazioni personali.
Un concetto, questo, già espresso con forza da Giulia Sattin al convegno di Napoli: “cerco di far vivere un’esperienza. Racconto quello che ho vissuto in prima persona“. La wine blogger e influencer, che collabora con un team, ha più volte rimarcato come, la vecchia formula, “una foto, un post”, sia ampiamente superata.
Allison Luvera, co-fondatrice di Juliet Wines, lo conferma: i micro-influencer sono una sorta di “passaparola 2.0“, capaci di creare conversazioni bidirezionali. Un concetto ribadito da Kristin Taylor, fondatrice di KT Winery (e del brand Mom Juice): le classiche campagne pubblicitarie con le celebrità sono sempre meno efficaci. Meglio puntare su ambasciatori del marchio che siano prima di tutto fan autentici del prodotto.
La parola “autentico“, sottolinea l’articolo, ricorre in ogni intervista. “I consumatori sono diventati molto più scaltri“, spiega Luvera. E dopo la pandemia, aggiunge Allison Day, fondatrice dell’agenzia di marketing digitale Good Things Done Right, la “perfezione patinata” non funziona più.
Ma l’influencer marketing può essere anche uno strumento educativo, soprattutto per avvicinare i giovani al vino. “La mancanza di educazione sul vino è un problema per le nuove generazioni“, ammette Luvera.
Un tema, questo dell’educazione, caro anche a Giulia Sattin, che a Napoli ha sottolineato come, anche durante un corso sullo Champagne, avesse dovuto spiegare concetti apparentemente basilari, come il fatto che lo Champagne si produce solo nella regione dello Champagne. “Avere influencer che ne parlano in modo accessibile può essere di grande aiuto“, chiosa Luvera
Alisha Zaveri, direttrice della divisione digitale dell’agenzia di pubbliche relazioni Colangelo & Partners, conferma che l’influencer marketing è diventato un “servizio fondamentale“. “Gli influencer sono bravissimi a creare connessioni autentiche“, afferma.
L’articolo riporta anche l’esperienza di Paige Comrie, influencer che su Instagram si fa chiamare “Wine with Paige“. Con oltre 33.000 follower, Comrie sottolinea l’importanza dell’esposizione ripetuta: “Un consumatore ha bisogno di vedere qualcosa sette volte prima di considerarlo un acquisto“.
Ma quanto costa un influencer? L’articolo parla di un “Far West“, con prezzi che variano da 500 a 5.000 dollari per un singolo post. E come si misura il successo di una campagna? Oltre ai classici link affiliati e codici sconto, si possono monitorare metriche come la reach e l’earned media value.
Insomma, l’articolo di Sarah Brown dipinge un quadro chiaro: l’influencer marketing, se usato in modo strategico e autentico, può essere un potente strumento per le cantine. Un futuro in cui il vino, forse, si berrà (anche) su Instagram.
E se in America l’influencer marketing è già una realtà consolidata, anche in Italia, come dimostra l’esperienza di Giulia Sattin e il dibattito emerso al convegno di Napoli, si inizia a comprendere l’importanza di questo nuovo canale di comunicazione. Un canale che, se ben gestito, può contribuire a svecchiare l’immagine del vino e a renderlo più accessibile e attrattivo per le nuove generazioni.
Come ha ricordato Camillo Privitera a Napoli, la sfida è proprio quella di “riuscire a parlare di vino a un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo, dai ragazzi di 18 anni, che si avvicinano per la prima volta a questo mondo, a quelli di 80, che magari ne sanno più di noi. E trovare il linguaggio giusto, il tono adeguato, per ogni interlocutore, sfruttando anche le potenzialità, ma senza farsi travolgere, dai nuovi mezzi di comunicazione“.
E come ha concluso Cristiano Cini, la nuova didattica AIS è un primo passo importante verso una formazione sul vino più inclusiva, emozionale e al passo coi tempi.