La tirannia dell’etichetta
Sul blog di Tim Atkin, Guy Woodward, ripercorrendo gli anni in cui era editor di Decanter, ricorda con particolare intensità le degustazioni organizzate nella suite executive al decimo piano della rivista, con vista sul Tate Modern. Due volte al mese, racconta, un gruppo di critici e buyer si riuniva per valutare vini provenienti da tutto il mondo: dai classici francesi ai toscani, piemontesi, Rioja, fino ad arrivare a etichette australiane, californiane, sudafricane e sudamericane. Ma l’evento clou, confessa, era la degustazione dei Crus Classés del Médoc.
“Al termine della degustazione alla cieca”, spiega Woodward, “spesso i degustatori scoprivano con orrore di aver assegnato punteggi più alti a vini meno prestigiosi. Ricordo persino una petizione per rimediare a un caso in cui Lafon-Rochet aveva superato Lafite Rothschild!“
Eppure, continua Woodward, al momento del pranzo la preferenza ricadeva sempre sui Premier Grand Cru Classé, a dispetto dei punteggi precedentemente assegnati. “A quel punto”, racconta, “mi chiedevo: ‘Ma come? Non vogliono bere i vini che ritengono migliori, ma quelli con l’etichetta più prestigiosa?’ Era la dimostrazione che l’etichetta conta più del gusto“.
Un fenomeno che, secondo Woodward, si è accentuato con l’avvento dei social media, dove oggi impazzano le foto di bottiglie blasonate. “Ma siamo davvero immuni al fascino del nome?“, si chiede. “Immaginate di assaggiare due Champagne alla cieca e di preferire quello con note di pane tostato. Poi scoprite che è Nicolas Feuillatte, mentre l’altro era Krug. Quale scegliereste? Se foste invitati a cena da un appassionato, portereste un Nicolas Feuillatte? Probabilmente no. L’ironia è che sui social una bottiglia rara di un produttore sconosciuto fa più scena di un vino famoso“.
Woodward sottolinea anche l’importanza del design dell’etichetta, soprattutto per i produttori meno noti. “Nonostante sappia che ci sono ottimi vini nella Linguadoca”, confessa, “ho sempre faticato ad appassionarmi a questa regione. Una volta lessi di un Faugères ‘divertente e fresco’, ma l’etichetta era tutt’altro e passai oltre”.
In definitiva, conclude Woodward, si tratta di pregiudizi, che forse si accentuano con l’età. Ricorda con un sorriso quando, ai suoi esordi a Decanter, prendeva in giro Michael Broadbent per la sua abitudine di bere ogni sera il Good Ordinary Claret di Berry Bros. & Rudd.
“Non vuole provare questi nuovi ice wine sloveni o questo Chenin Blanc messicano?”, gli chiedeva.
“Ho già fatto tutti gli esperimenti”, rispondeva Broadbent, “ora voglio godermi i miei preferiti”.
“Un ‘so cosa mi piace’ definitivo”, commenta Woodward. “E almeno non aveva problemi con i vini a marchio privato. Che sciocco ero…”