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Enoturismo
07/10/2024
Di Redazione AIS

La vendemmia che cura l’anima

La vendemmia non è solo un processo agricolo, ma un’esperienza umana totalizzante, una cura per il cinismo moderno. In un articolo sulla rivista Decanter, la giornalista Eliza Dumais racconta la sua esperienza nei vigneti francesi. Lontano da punteggi e aste, il lavoro manuale riporta il vino alla sua dimensione più pura: un rito collettivo di fatica e amicizia. Questa immersione nella natura e nel lavoro fisico diventa un antidoto alla disconnessione, un modo per ritrovare il senso delle cose.

Se potessi dirvi una cosa sola sulla vendemmia, vi direi questa: è l’antidoto alla noia esistenziale. È il balsamo per l’anima disincantata, la ricetta per ricostruire la fiducia, e non solo nel vino. È una confessione, quasi un manifesto, quella che la giornalista Eliza Dumais affida alle pagine della prestigiosa rivista Decanter, un racconto intimo che trasforma il rito della raccolta dell’uva in un’esperienza di redenzione.

Per chi non l’ha mai provata, les vendanges è una sorta di colonia estiva per adulti, ma con dosi massicce di alcol e fatica disumana. È quel mese febbrile in cui l’uva è pronta e non si può attendere. Bisogna raccogliere, pressare, pigiare, prima che tutto sia perduto. Volontari da ogni dove si riversano nelle tenute, dormendo in camerate, tende o stanze di fortuna, svegliandosi prima del sole. È un masochismo estatico. Dodici ore di lavoro al giorno. Dita che sanguinano, schiene spezzate, svegliarsi con gli insetti sui vestiti.

Cresciuta a New York, la Dumais racconta di come per lei l’origine delle cose sia sempre stata una questione astratta: il cibo viene dal supermercato, l’acqua dalle bottiglie di plastica. La vendemmia, invece, è una masterclass brutale e meravigliosa sulle origini. È una lezione infinita e disordinata su cosa c’è davvero dentro una bottiglia. Certo, sapeva che il vino si fa con l’uva. Ma la vendemmia le ha permesso di portare questa verità in una parte più profonda e intuitiva del cervello.

Anno dopo anno, da Chablis all’Alsazia, dall’Austria al Roussillon, ha ripetuto questo rito. E perché continuare a sottomettersi a sveglie alle 5 del mattino e a talloni macchiati dal carignan pigiato a piedi nudi? Perché, spiega, è come premere un pulsante di reset. È l’antitesi del suo lavoro di scrittrice, ma soprattutto le ricorda perché ha voluto lavorare nel mondo del vino. Spogliato di tutto, rimane solo il vino. La cosa in sé.

L’industria del vino, ammette, può essere estenuante. C’è lo snobismo, i prezzi inaccessibili, i sommelier saccenti, le aste-spettacolo, i clienti pronti a giudicarti se ordini la bottiglia meno cara. A un certo punto, il vino diventa un bene di consumo, non una forma d’arte. Diventa un argomento intellettualizzato e sostenuto solo dal denaro, come le criptovalute. In vendemmia, invece, non è un argomento. È vino.

Questa sensazione, come emerge dal pezzo di Decanter, è condivisa da molti. È un coro di voci che ne conferma il potere curativo. “Mi ricorda cosa significa essere vivi”, dice la sommelier Audrey Aubertin, che dopo la sua prima vendemmia ha lasciato un lavoro d’ufficio per dedicarsi al vino a tempo pieno. Hannah Harrington, sommelier a New York, la descrive come un “grande livellatore”. Non c’è gerarchia: tutti lavano i secchi, strisciano nel fango, tagliano grappoli. “Nel mondo del vino tutti vogliono essere i migliori, sapere di più. Ma in vendemmia tutto è uno sforzo collettivo. Ci metti letteralmente sangue, sudore e lacrime, ed è una sensazione incredibile. Potevo sentire i miei livelli di cortisolo scendere”.

È un ritorno ai ritmi naturali. Ci si alza con il sole e si crolla in un sonno profondo e senza complicazioni. Si passa il tempo all’aperto, interamente dentro il proprio corpo. Caitlin McInnis, una scrittrice che ha condiviso con l’autrice l’esperienza in Alsazia, la definisce “un rimedio alla disconnessione. Un portale per un contatto diretto e quotidiano con i ritmi della natura. È una cosa deliziosa e umiliante che ti spoglia di ogni pretesa”.

In parole semplici, la vendemmia trasforma il vino da merce a creatura vivente. Più poesia che “prodotto”. E quando alla fine si stappa la bottiglia, si possono assaporare le mattine gelide, le conversazioni profonde tra i filari, le mani umane. E quale antidoto migliore esiste, per l’apatia?

Resta, a margine di questo racconto quasi idilliaco, una riflessione necessaria. L’autrice parla di “volontari” e il suo pezzo non entra nei dettagli della retribuzione. È fondamentale, però, che chiunque decida di intraprendere un’esperienza simile abbia un quadro chiaro della situazione: se la scelta consapevole è quella di uno scambio alla pari — fatica e sudore in cambio di una sorta di terapia — il patto è accettabile. Ma questa esperienza totalizzante e quasi spirituale non deve mai diventare il pretesto per una manodopera non regolamentata o, peggio, gratuita. Un patto di fiducia e correttezza che è la base indispensabile per poter poi parlare, senza ipocrisie, di redenzione e poesia.

Redazione AIS
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