NoLo. Perché chiamarlo vino? Una riflessione critica sul fenomeno dei vini non alcolici

Il fenomeno: un nuovo “vino” sugli scaffali
Sugli scaffali dei supermercati e nelle carte di alcuni ristoranti cominciano ad apparire sempre più frequentemente bottiglie etichettate come “vino non alcolico” o “vino dealcolato”. L’offerta cresce, la comunicazione si fa raffinata e il prodotto viene spesso presentato come alternativa “salutare” al vino tradizionale. Ma viene da chiedersi: ha davvero senso chiamarlo vino?
La questione non è solo nominale, ma culturale. Il vino, per definizione e tradizione millenaria, è il frutto della fermentazione alcolica del succo d’uva. L’alcol, oltre a essere un componente chimico, è anche parte integrante del profilo gustativo, dell’equilibrio e della struttura della bevanda. È ciò che dà corpo, persistenza e calore e che contribuisce in modo sostanziale alla complessità aromatica. Rimuoverlo significa alterare profondamente ciò che il vino è, non solo nella composizione, ma anche nell’identità.

I metodi industriali: come si toglie l’alcol
Ma come avviene la dealcolazione del vino? Secondo quanto previsto dal decreto ministeriale, esistono tre metodi principali. Il primo è l’evaporazione sottovuoto, una tecnica che sfrutta la riduzione della pressione per far evaporare l’alcol a temperature inferiori rispetto al punto di ebollizione normale, senza far evaporare l’acqua. Questo sistema consente di limitare l’impatto termico sul prodotto, ma comporta comunque una parziale perdita degli aromi più volatili. Il secondo metodo è l’osmosi inversa, o più in generale le tecniche a membrana selettiva: si tratta di una filtrazione ad alta pressione che utilizza membrane capaci di trattenere le molecole più grandi, come l’alcol etilico, separandole dal resto del vino. È considerata una tecnica efficace nella conservazione degli aromi, ma è anche energivora e comporta un elevato consumo di acqua. Infine, la distillazione a temperature controllate, intorno ai 30°C, consente di rimuovere l’alcol sfruttando il diverso punto di ebollizione rispetto all’acqua, ma porta inevitabilmente con sé anche una parte degli aromi, alterando in parte il profilo organolettico del vino.
Ciascun metodo presenta vantaggi e compromessi e la scelta dipende dall’equilibrio che si vuole ottenere tra fedeltà sensoriale, sostenibilità e costo produttivo. Tuttavia, il risultato difficilmente può ricondurci al vino così come lo conosciamo. I prodotti ottenuti, per quanto simili nell’aspetto, mancano di profondità, risultano talvolta sbilanciati, e possono compensare con zuccheri aggiunti, con una percezione finale più vicina a quella di un succo sofisticato che a un vino vero e proprio.

Un pubblico legittimo, ma servono parole più chiare
Chiariamo: non si tratta di sminuire l’utilità del prodotto. Esiste un pubblico legittimo per queste bevande che non può o non vuole consumare alcol, per ragioni mediche, religiose, etiche o personali. Il mercato internazionale, in particolare in Paesi come gli Stati Uniti, il Nord Europa e l’Asia orientale, premia soluzioni alternative all’alcol, in un contesto culturale in cui la moderazione o l’astinenza sono sempre più diffuse. Ma proprio per rispetto verso questi consumatori consapevoli, sarebbe forse più onesto smettere di chiamarlo “vino”.
Il problema, infatti, è anche comunicativo. L’uso improprio del termine “vino” può trarre in inganno, suggerendo che si tratti dello stesso prodotto con un solo dettaglio mancante. Ma non è un dettaglio: è una trasformazione radicale.

Serve una nuova identità: oltre il marketing
Si parla sempre più di prodotti “NoLo”, acronimo di No e Low (basso). NoLo potrebbe essere un nome con cui definire il vino a basso (o zero) contenuto di alcol. Un’etichetta più trasparente con la dicitura “bevanda a base di uva fermentata dealcolata” potrebbe aiutare a evitare equivoci e a valorizzare il prodotto per ciò che è, senza appropriarsi di un’identità che non gli appartiene.
La critica, quindi, non è rivolta al concetto in sé di bevanda senza alcol, ma alla sua presentazione. Dietro l’apparente inclusività si cela talvolta una strategia di marketing che punta a cavalcare il prestigio culturale del vino senza poterne realmente sostenere l’eredità.
Forse è il momento di lasciare che il vino resti vino, con tutto ciò che questo comporta, e di trovare un nome nuovo e più onesto per queste alternative moderne. Non per sminuirle, ma per riconoscerle come qualcosa di diverso, con una propria dignità.
