Ottavianello. Un’altra idea di Sud

Sembra tornato per restare e cambiare per sempre le prospettive, le certezze e anche qualche stereotipo di troppo sui (pre)potenti vini di Puglia. Sarà per il suo nome declinato al vezzeggiativo, sarà per la livrea dei suoi vini luminosi, sta di fatto che l’ottavianello conquista, annata dopo annata, sempre più fiducia e presenza tra i “nuovi” rossi del sud Italia.
La scienza enologica e ampelografica, così come fanno le radici di una pianta, scava in profondità per ricercare la matrice della vita, l’origine di una cultivar oppure quella di un’antica tradizione. Nel caso di specie, la ricerca ci porta lontanissimi nel tempo e rivela insospettabili affioramenti nella geografia europea e non solo.
Questo vitigno, come spesso accade, ha la sua culla in area greco-caucasica. Presumibilmente, già in epoca magnogreca, fu introdotto in Europa dai coloni focesi o dagli eubei, insomma dai margini orientali del Mediterraneo, per giungere dapprima in Campania e poi sulle coste francesi. Fu durante il medioevo che l’ottavianello avrebbe trovato la sua patria elettiva nel regno angioino di Carlo II, attorno a Napoli e ai piccoli poderi che circondano il Vesuvio, tra cui la piccola Ottaviano. E da qui, soltanto sul finire dell’800, il vitigno trae il nome e riprende il suo cammino verso oriente, grazie al marchese di Bugnano che lo conduce fino alle sue stanze in agro di San Vito dei Normanni e Ostuni, in terra di Brindisi.
Nel frattempo, la storia del vitigno ha guadagnato altri spazi in giro per il mondo: in Francia, con il nome di cinsault, trova impiego accanto a grenache noir, mourvèdre e syrah per la produzione di straordinari vini rosati freschi e delicati, così come compare nel mezzo dei 13 vitigni ammessi per il leggendario Châteauneuf-du-Pape. Persino in Sudafrica rintracciamo la sua stirpe: con il nome di hermitage, in blend col pinot noir – con cui numerose e sorprendenti appaiono le assonanze – dà vita al pinotage.
Ma torniamo al punto di partenza, la Puglia, la valle d’Itria, la città bianca di Ostuni, là dove la storia moderna di questo vino riparte, finalmente, con grande fermezza. Siamo sulla piana degli ulivi millenari, dove l’Adriatico soffia costantemente, la terra è rossa di ferro e la pietra è bianca di calcare. Si sale un bel po’, rapidamente; già a sette-otto chilometri dal mare, siamo oltre i duecento metri di altitudine, ma addentrandosi si superano i trecento. L’ottavianello non ha alcun problema a queste latitudini: la sua grande capacità di adattarsi a vari suoli (predilige quelli argillosi e ben drenati della Murgia), la grande generosità produttiva (pure troppa, da domare), la benevola tolleranza del gran caldo e delle esposizioni solari danno robustezza a questi tralci.

Se nel Dopoguerra si contavano circa tremila ettari vitati a ottavianello, le vicissitudini culturali, sociali e normative degli anni a venire saranno tali da favorire l’espianto della vite a favore dell’ulivo, lasciando le porzioni di vigneto via via più assottigliate. Fece appena in tempo, nel 1972, l’agronomo Pietro De Laurentis (alla cui memoria ancora oggi s’intitola la locale Cooperativa) a chiedere e ottenere due denominazioni d’origine: Ostuni Bianco Doc e Ostuni Ottavianello Doc, un sigillo sulla storia destinato a salvare queste terre da una certa damnatio memoriae.
Oggi, tra gli appena 50 ettari di ottavianello rimasti tra gli areali della provincia di Brindisi, si torna sulle tracce di quel passato e di quella tradizione, sorprendendosi ogni volta di quanto insolito, elegante e così diverso da ogni altro vino sia questo prezioso superstite enologico. La sola Doc di Ostuni difende oggi con orgoglio la presenza del vino in purezza nel proprio disciplinare, grazie alla tenacia di produttori che hanno lavorato per anni in trincea, lontano dalle risposte del mercato. Pensiamo a Oronzo Greco, tra i pochi a tenere in piedi la DOC; oppure a Beppe di Maria e alla sua Carvinea, primo a credere nella proposta di un 100% ottavianello: quasi sempre, il colore così tenue e la lieve espressività del vitigno portava i produttori a inseguire blend più “solidi”, contando sull’uvaggio con negroamaro, malvasia nera o primitivo.
Le abbiamo inseguite una ad una le 8 aziende e le 12 etichette dell’ottavianello, presenti ad oggi sul mercato, talvolta alla loro prima uscita: proposte che, in questo momento di sorprendente, atteso e favorevole rilancio, iniziano a raccontare al mondo intero un vero cambio di guardia nell’enologia regionale, una prospettiva che guarda a vini esili e gentili, sapidi e freschissimi, intriganti negli abbinamenti di pesce, ma anche con un’insospettabile longevità che siamo pronti a testare.
Villa Agreste
Morellina, 2022, 12,5%
Non s’erano mai visti vigneti sin laggiù. Planare dalla collina e ritrovarsi nel bel mezzo dei millenari di Puglia – gli ulivi monumentali della costa che, da Monopoli, discende sino a all’oasi-riserva di Torre Guaceto – è un’esperienza primordiale. Qui, in contrada Conca d’Oro, la sfida antica e nuovissima di Enzo Iaia si declina attraverso la ricettività di un agriturismo rurale, organico e radicato nell’espressione della terra, così come per mezzo del “progetto vino” volto a rinsaldare la memoria e il potenziale della Doc Ostuni.
Morellina non sta dentro alcuna denominazione. Un vino eretico? In parte sì. L’ottavianello, vinificato in bianco, sfugge da ogni radar. Ottavianello 85%, susumaniello 10% e notardomenico 5%: è la formula di questo blend valditriano che, alla sua prima uscita, non può non stupire per la sensorialità del tutto mediterranea.
Calice verdeoro, prezioso e fulgido. Il naso è una discesa tra una gariga di erbette, muschio, rosmarino, maggiorana, resina di pino, anice stellato. Qualche frutto a polpa giallo-arancio, come una nespola e una susina, riverbera tra fumosi toni di bocca, in una beva masticabile e saporita. Da limare qualche fraseggio amarognolo in chiusura.

Carvinea. Beppe di Maria
Nell’agro di Carovigno, la cantina Carvinea di Beppe di Maria è una vera e propria fucina di sperimentazione e rinnovamento per l’ottavianello. Una realtà in cui la lungimiranza del titolare incontra la risolutezza e l’esperienza internazionale di Riccardo Cotarella, progettando qualcosa che va ben oltre la declinazione di un prodotto, per divenire bandiera, emblema identitario dell’intero territorio. Quattro le etichette che compongono il motivo polifonico di un così versatile vitigno: uno spumante metodo classico, due rosati e un grande rosso. Cominciamo.
Ottorosé Metodo Classico Brut millesimato 2020, 12,5%
Unico metodo classico in degustazione e dunque occasione per un test sulla distanza. 36 mesi di affinamento sui lieviti per un calice dal perlage di massima finezza e spigliate catenelle che fanno brillare i toni cipria e fior di pesco. Olfatto gentile, primaverile, con ottima integrazione delle note di lievito e pasticceria, accanto ai petali di rosa, alla pesca, lampone e ginger. Cremoso al palato, con discreta mineralità e un finale tra la frutta secca ed il fumé.
Sorma Rosato Salento Igt 2024, 11,5 %
La trasparenza adamantina e il tenue fior di ciliegio dentro il calice, annunciano un vino agile, dalla brevissima macerazione, delicato in ogni aspetto della sua “femminilità” (a cui sembra alludere il nome dialettale: sorella). Un sottile sbuffo di cipria anticipa le note agrumate di mandarino e quelle di frutti rossi, lampone, melagrana e fragranti ciliegie bigarreau, accanto alla rosa gallica. Acidità tonica e salinità danno freschezza e lunghezza al sorso.
Ottorosa Rosato Salento Igt 2024, 12 %
Vivida la lucentezza rosata dell’arancio, quasi salmone. Al naso, il ribes rosso e la melagrana danno massima fragranza, accanto a rosa canina, erbette aromatiche e note di gelatina di lamponi. La beva è chiaramente sapida, freschissima, persino balsamica, chiudendo in persistenza con lontani echi salmastri.
Sorma Rosso Salento Igt 2021, 13,5%
È già un’ipotesi di longevità, questo campione di soli 4 anni ma pensato per cavalcare il decennio. Si vedrà.
La fermentazione del Sorma Rosso termina in barriques, dove andrà ad affinare per qualche mese, fino a vestirsi di un granato mattonato, evoluto e acceso più di qualunque altro campione. Al naso, il fico secco e un curioso mandarinetto si districano tra liquirizia, arancia sanguinella e cenni di alloro. Severo il gusto, tannino stuzzicante e qualche nota resinosa, con chiusura di carruba e appagante sapidità.

Azienda Agricola Greco
Oronzo Greco è un passionario. Nello sguardo, nell’orgoglio, nelle idee, nella ferma… “ostinazione” (possibile comunanza etimologica) del “progetto Ostuni”: forse dobbiamo a lui la sopravvivenza della Doc e tutto quanto andiamo raccontando in questo exploit di ottavianelli. Nella contrada Follifuoco, a pochi passi dal centro abitato di Ostuni sulla via per Ceglie Messapica, i vigneti di Greco svelano la piena dedizione al territorio. Qui c’è spazio solo per due autoctoni bianchi, Impigno e Francavidda – da cui nasce Signora Nina – e per l’Ottavianello, da cui vengon fuori le altre due etichette, Alma Rosato e Barocco Rosso.
Alma Rosato Salento Igp 2024, 13,5%
Rosa corallo nel calice, regala al naso un ricamo di note floreali di ciclamino e pittosporo, cenni agrumati, accanto a piccoli frutti rossi come lampone, ribes e fragolina, ed erbe aromatiche di macchia mediterranea. L’assaggio è fresco e sapido, con quella piacevole e morbida pienezza che rende Alma un ideale compagna a tutto pasto, con suggestioni molto avvincenti verso il mare e le zuppe di pesce.
Barocco Ostuni Ottavianello Dop 2023, 13,5%
Un ottavianello che mostra i muscoli nel calice: più carico, più spesso, già carminio ma sempre luminoso e trasparente. Principiano i sentori della rosa e della violetta, mentre il cassis, l’arancia secca, il pompelmo rosa e una caramella agli agrumi accompagnano anche il sorso fino a note finali di smalto e ceralacca. È il campione più avvolgente, caldo, pieno, con ricordi persistenti di gelée di mirtillo e di nocciola.
Amalberga
Stùne Ostuni Ottavianello Doc 2023, 12%
Compie i suoi primi dieci anni la piccola azienda ostunese vocata a due principi della Valle d’Itria: il minutolo e l’ottavianello, accanto ai recuperati vigneti di verdeca, primitivo e negroamaro (dal 2023). Un progetto complesso e ambizioso quello di Dario De Pascale, di cui fanno parte anche i ristoranti Ama Chilometrozero in pieno centro storico e il wine bar Ama Dopolavoro, un antico trullo saraceno restaurato e convertito in wine bar.
Stùne – Ostuni in dialetto locale, che però suona così simile a “pietra” in anglosassone – è un ottavianello schietto, diretto, solo acciaio, figlio dei terreni argillosi e carbonatici di questa località a 300 metri s.l.m. Illuminato rubino zaffiro, incede nel calice con sentori di melagrana, ribes rosso in gelatina e ciliegia croccante che spicca sullo sfondo di iris, fresche note di eucalipto e incenso cherry blossom. In bocca, il tannino gentile e la lieve balsamicità accompagnano ultime note di mammola e un finale lievemente amaricante.
Vini Montemarcuccio
Elpis Valle d’Itria Igp, 12,5%
Nella valle dei trulli, a Cisternino, tra i borghi più belli d’Italia, Pietro Faniglione e famiglia dedicano tutto il loro tempo a celebrare i propri autoctoni: verdeca, bianco d’Alessano, minutolo e una sola bacca nera: l’ottavianello.

La pigrizia cromatica del vitigno chiede aiuto alle tecniche di salasso, per raggiungere i toni rubino con ricordi amaranto. Fragoline di bosco e toni di glicine si aprono lasciando spazio ad arance rosse, mandorle fresche e a qualche spezia dolce. La bocca è ancora più espressiva, articolandosi in un sorso che rievoca amarene e croccantino, convergendo verso un freschissimo finale sapido.

Tenute Rubino
Lamo Ostuni Ottavianello Doc 2022, 12,5%
Nella grande avventura targata Susumaniello che Luigi Rubino e Romina Leopardi, proseguendo le intuizioni del capostipite Tommaso Rubino, hanno intrapreso in questo primo quarto di secolo, l’ottavianello si inserisce come nuova scommessa di crescita e notorietà. Se le tenute di Brindisi ospitano le cultivar più salentine – susumaniello, primitivo, negroamaro – si risale fino a Ostuni, nel piccolo vigneto su un pendio collinare che sfiora i 380 metri s.l.m., dove l’ottavianello dà origine a Lamo, un vino che ha nel nome le memorie epiche degli eroi dell’Eneide.
Alla vista, cromie rubino con riverberi carminio. Olfatto appagante sin da subito, di mirto, ribes nero, scorza d’arancia candita, rosa rossa, rosmarino e arachide. La bocca è espressione di pienezza ed eleganza, sorprendente l’equilibrio fresco sapido, iodato e balsamico, con chiusura emozionante di visciole e crostata.

Vallone
Flaminio Ostuni Ottavianello Dop 2023, 13,5%
Tra gli autoctoni di casa Vallone, negli storici vigneti Flaminio che sorgono su un antico insediamento messapico alle porte di San Pietro Vernotico, l’ottavianello, con la sua agilità e gentilezza, si fa spazio tra i giganti dell’azienda: impossibile non pensare all’epopea di Graticciaia.
Macerazione in acciaio per 15 giorni (che per queste uve dalla buccia timida è un record), malolattica spontanea e affinamento tra cemento e bottiglia.
Nobile cerasuolo nel calice, si annuncia al naso con note di prugna, ciliegia amara e toni terrosi, con fresche folate officinali. In bocca, il tannino lieve cesella un sorso che rimaneggia le note olfattive regalando anche cenni di cacao e pepe rosa. Buona persistenza dal carattere sapido e minerale.
Leone De Castris
Per Lui Rosso Salento Igt 2019, 13%
Nella dedica in etichetta della linea “Per Lui”, c’è più di un valore affettivo. L’omaggio di Piernicola de Castris a suo padre Salvatore, pioniere della viticoltura pugliese nonché Cavaliere di Gran Croce e del Lavoro, si esplica attraverso l’espressione del massimo livello qualitativo dei quattro vitigni autoctoni di casa: negroamaro, primitivo, susumaniello e ottavianello.
Quest’ultimo campione in degustazione è particolarmente interessante per due fattori: i terreni argilloso-sabbiosi della tenuta sono a Salice Salentino – quindi un primo tentativo di migrazione verso sud, rispetto alle esperienze di Valle d’Itria – e l’annata 2019 fa già intendere una scommessa di longevità.
Splendido granato, aristocratico. Al naso si alternano toni complementari, dai più leggeri – geranio e violetta – ai più marcati: ciliegia sotto spirito, confettura di visciole, crema di arachidi e crème brûlée, senza tralasciare la sottile speziatura di pepe verde. La bocca è da applausi: freschissimo, croccante, così dinamico nel suo equilibrio tattile, insospettabilmente progressivo e persistente.
