Racconto d’Abruzzo
Dopo aver visto e conosciuto l’Abruzzo, ho detto e ripeto io: Abruzzo Forte e Gentile.
Primo, Abruzzo forte e gentile. Impressioni d’occhio e di cuore
Qualcosa di aspro e di frammentariamente elegante, qualcosa che poi riconoscerò come molto abruzzese.
Giorgio Manganelli, La favola pitagorica. Luoghi italiani
Stretto tra gli Appennini e l’Adriatico – due presenze che si avvertono anche quando, ed è fatto raro percorrendo il territorio, non si vedono –, l’Abruzzo è terra di rilievi (montagne, altopiani, colline), fiumi e laghi, di rupi e radure, di aspri anfratti e spettacolari silenzi, di paesi arroccati dai nomi stravaganti ed evocativi (c’è perfino un palindromo, Ateleta, uno dei cinque di tutta l’Italia,), di fiere municipalità e fervore religioso, di cattedrali e abbazie, di torri di guardia e trabocchi. Una regione dalla bellezza irriducibile che ti entra dentro, nella mente e nel sangue, ma che in larga parte giace misconosciuta al pubblico, forse tuttora ancorato al cliché di un Abruzzo arcaico legato all’immaginario di un D’Annunzio (“pastorale, violento, ieratico”) o di un Silone (“gli umiliati cafoni, i poveri, le vittime”), quando “la carnalità del primo, la lamentazione del secondo non rendono giustizia all’unicità abruzzese” (Manganelli): durante gli otto giorni del mio viaggio ho incontrato solo gente ospitale e cordiale, orgogliosa della propria identità quanto conoscitrice della propria terra. Abitano questi luoghi viscerali tre vini regionali di diverso colore e identico ardore: il Trebbiano d’Abruzzo (d’ora in poi TdA), bianco elegante e severo, di temperata alcolicità e spiccato sapore; il Montepulciano d’Abruzzo (MdA), rosso profondo e sanguigno, variamente declinato secondo i terroir di provenienza; e il Cerasuolo d’Abruzzo (CdA), vino verace ed eclettico, simbolo della regione: né rosso né rosa, qualcosa che non è più centro ma non è ancora sud (poiché lontano dai rosati pugliesi come dal Cerasuolo di Vittoria) che forse incarna l’assoluto abruzzese. Questi tre vini – più un quarto rappresentato dal Pecorino, alter ego del Trebbiano per la sua natura più aromatica e alcolica – trovano radici nella parte pedemontana e costiera della regione, a quote comprese tra i 150 ed i 600 metri, tra impianti a tendone o pergola abruzzese (75% del territorio) e spalliera, su suoli argillosi con percentuali variabili di calcare, sabbie o ciottoli, in mezzo a campagne variegate (viti, ulivi, seminativi, boschi) lungo quattro province: L’Aquila, il cui comprensorio rappresenta lo 0,66% di una produzione regionale stimata in 32.000 ettari vitati, 134 milioni di ettolitri e 177 milioni di bottiglie annue; Teramo (11,08%), Pescara (10,25%) e Chieti, il territorio più esteso e produttivo (78,01%).
Nella provincia dell’Aquila
La più originale ed estrema: montagne (il Gran Sasso e il Sirente), altopiani (il grandioso scenario “lunare” e “tibetano” di Campo Imperatore), eremi (Sant’Onofrio al Morrone), borghi incassati tra le rocce (Scanno, il paese del tombolo, del costume femminile più famoso d’Abruzzo e della presentosa, raffinato monile d’oro). È l’unica che non arriva al mare. Qui si radicalizza ciò che faceva notare Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia, ovvero che l’Abruzzo non ha, a differenza del confinante Molise e del resto del Meridione, una componente ellenica avvertibile, quanto “un soffio d’Oriente, e lo si coglie nei costumi, nei tappeti, negli ori, nei merletti”.
Si arriva alla cantina Praesidium lungo i tornanti di Prezza, “il terrazzo della valle Peligna”: dai suoi “spalti” si vedono il Gran Sasso, il costone del Morrone e, più spostata, la Maiella. Con Pacentro, Pettorano e Popoli (che ufficialmente appartiene alla provincia di Pescara ma la cui gola si trova nel mezzo delle valli aquilane), Prezza fa parte dei “paesi strategici” che hanno resistito ai Romani e che portano come simbolo le tre torri. Il vento provocato dalle gole di San Venanzio e dal passo San Leonardo è un beneficio costante per le vigne (7 ettari a 400 metri di quota tra Prezza e Raiano in regime biologico), così come le escursioni termiche tra il giorno e la notte. I vini di Ottaviano e Antonia Pasquale, i figli di Enzo che ha fondato la cantina nel 1988, provengono da basse rese, fermentazioni spontanee e assenza di filtrazione. Il Montepulciano Riserva sfoggia profondità, ampiezza, persistenza: il 2020 è balsamico e terroso; il 2019 è ematico, “olivoso”, con irresistibile succosità di mora; il 2016, sanguigno come una Syrah del Rodano, sa di tapenade e di garrigue come se fossimo in Provenza; il 2014 è un tripudio di fiori rossi, ribes rosso, menta, eucalipto. Il Montepulciano Riserva A Marianna, prodotto nelle annate migliori, si compra solo in azienda (3000 bottiglie da un ettaro di vigna degli anni Sessanta che apparteneva alla nonna, cui il vino è dedicato): il 2015 si avvicina al concetto di purezza per l’accensione balsamica, la fine tessitura del tannino, l’allungo prodigioso. Stupisce il Lucì 2021, un trebbiano che fonde rusticità e leggiadria. Una sola notte a contatto con le bucce ma 20 mesi sulle fecce fini: mandorla sbucciata e buccia di limone, note sulfuree e sorso lunghissimo.
Poco oltre, a Vittorito, i Pietrantonj, viticoltori dal 1830, rappresentano la storia del vino regionale: Nicola Pietrantonj, figlio di Alfonso, fu il primo abruzzese a diplomarsi in viticoltura ed enologia a Conegliano nel 1889 e nelle cantine sono visibili la botte più grande del centro-sud Italia, la n. 16 in legno di rovere e noce del 1884 (capacità originaria di 360 ettolitri, oggi diventati 246) e due cisterne da 700 ettolitri costruite dallo stesso Alfonso Pietrantonj nel 1893: gli interni a forma di cupola sono interamente ricoperti da maioliche di Murano. Le sorelle Alice, che si occupa della produzione, e Roberta, che segue la parte amministrativa (ma c’è anche Serena, l’architetta che ha progettato il punto vendita e saltuariamente dà una mano in azienda), rappresentano la quinta generazione di famiglia. Ai 60 ettari vitati di proprietà tra Vittorito e Corfinio – un bacino ideale per la diversità degli impianti, dei terreni e delle esposizioni – si sommano altri 60 ettari tra oliveti e seminativi. Dell’ampia produzione si distinguono i vini della linea Cerano, tra cui un piacevole, polposo CdA 2023 dai sentori di tamarindo e un sostanzioso MdA Riserva Terre dei Peligni 2020 dal profilo boisé.
Non si può lasciare la valle Peligna senza visitare Sulmona, la città di Ovidio, dei confetti (dimenticate quelle mediocri pasticche che per anni siamo stati costretti a mangiare a matrimoni e cresime) e di una giostra cavalleresca di origine rinascimentale che va in scena a fine luglio nell’anfiteatro di piazza Garibaldi aperto sulle montagne, dove gareggiano i quattro sestieri e i tre borghi in cui è suddiviso il territorio municipale. Sulmona incanta per i gioielli architettonici (Cattedrale, Complesso dell’Annunziata, San Francesco della Scarpa, Santa Maria della Tomba), per l’acquedotto medievale dai 21 archi gotici, per le vie dove è un incanto passeggiare.
Quando si arriva nella conca d’Ofena, uno spettacolare anfiteatro pianeggiante che in realtà è un altopiano (350 metri di quota) circondato dalle montagne, il termometro dell’automobile fa un balzo repentino in avanti di alcuni gradi: è il “forno d’Abruzzo”, dove però la temperatura di notte è capace di scendere drasticamente fino a 20 gradi per effetto delle correnti che arrivano dal ghiacciaio del Calderone. Qui ha trovato il proprio habitat ideale il vitigno pecorino, che Luigi Cataldi Madonna ha piantato prima degli altri nel 1990. In questo vigneto di 8000 metri quadri in località Madonna del Piano nasce nel 1996 il Frontone, che dal 2009 non fa più legno ma un anno e mezzo di bâtonnage in acciaio e altrettanto affinamento in bottiglia. Se il 2021 profuma di cedro, di lime, di nepitella, ha sorso acido, agrumato e balsamico, il 2010, d’identico colore brillante nonostante gli anni trascorsi, è oggi pervaso da un’evoluzione idrocarburica, da una corrente minerale e da un’acidità a pioggia che conferiscono caratura e contrasto. Dal 2019 l’azienda è diretta da Giulia, l’intraprendente figlia di Luigi, che rappresenta la quarta generazione ed è l’unica enologa della famiglia (il padre era professore di filosofia, il nonno architetto, il bisnonno geometra). Il CdA Piè delle Vigne 2021 viene prodotto con il metodo della “svacata”, che prevede, a parità di grado zuccherino durante la fermentazione, l’aggiunta di una quota di mosto sulle bucce (qui il 15%, nel CdA Malandrino è il 5%) alla vinificazione in bianco: note ferrose, marasca, visciola, corpo pieno, compatto, allungo tannico. Giulia e Luigi Cataldi Madonna hanno scritto un libro fondamentale, Il vino è rosa, per comprendere il primato storico e la natura più intima del cosiddetto “rosato”. Il MdA Tonì 2021 – da singolo vigneto, è l’unico vino aziendale che matura in una botte da 25 ettolitri, la sola rimasta dopo la decisione rivoluzionaria di Luigi di togliere nel 2012 tutti i legni dalla cantina –, manifesta un carattere “bordolese” (frutti di bosco, erbe, chine leggere, densità, velluto e freschezza) assai sorprendente per un rosso che nasce nel “forno d’Abruzzo”.
Nella provincia di Teramo
Nella campagna di Torano Nuovo, in val Vibrata, parte nord della regione, la cantina Emidio Pepe, fondata nel 1964 da questo saggio vegliardo di 92 anni, ha da più di un ventennio una conduzione interamente femminile, con le figlie Sofia e Daniela con le giovani nipoti Chiara ed Elisa che si occupano di tutto (campagna, cantina, agriturismo), perpetuando il metodo del fondatore: conduzione biodinamica del suolo di cui Emidio è stato pioniere (usava solo rame e zolfo, piantava sovesci monovarietali che poi trinciava; da tre anni Daniela sperimenta dei trattamenti sulle piante più giovani a base di latte crudo vaccino diluito in acqua, che inibisce l’azione dei parassiti sulla foglia e abbassa i pH nelle fermentazioni); parcelle vinificate separatamente (in cantina è appesa la “carta delle vigne”, in uso dal 1964, dove sono riportati tutti gli interventi eseguiti per ogni vigneto); controllo meticoloso delle fermentazioni spontanee (fino a 14 ore al giorno, con monitoraggio al microscopio); uve pigiate con i piedi, quelle rosse diraspate a mano con breve macerazione (8 giorni, in passato erano di più); due anni di maturazione in cemento vetrificato senza intervento dell’ossigeno (in cantina non ci sono botti); travaso dei rossi dopo 20 anni d’invecchiamento in un’altra bottiglia per garantire l’integrità del vino (l’aula principale di stoccaggio, che sembra la navata di una basilica, contiene 35.000 bottiglie). In famiglia nessuno ha studiato enologia. Nei 17 ettari vitati il 70% è occupato dai tendoni, tra cui un patrimonio di 8 ettari compresi tra gli anni Cinquanta e Ottanta. “Nella pergola c’è equilibrio, si coltivano volumi, non superfici. La copertura fogliare protegge anche i suoli, non solo i grappoli” dice Elisa. Dal giardino dell’agriturismo si vede la pergola storica del 1963 chiamata Casa Pepe, quasi un ettaro di montepulciano da cui proviene il materiale genetico per le selezioni massali (il suo pendant per il trebbiano è la vigna Donatella del 1988). Dietro c’è il paese di Torano Nuovo e il Gran Sasso, verso ovest i Monti Sibillini. Il TdA 2022 è rurale, materico, rigoroso. Un vino strutturale prima che sensoriale, di portamento prima che di effluvio. Il 2009 è pura vibrazione. Il Pecorino 2022 ha l’odore caldo del fieno, del grano, della terra, è succoso, viscerale, sapido. I MdA Vecchie Vigne Selezione sono vini cangianti e complessi che vanno aperti per tempo e fatti respirare. Il caleidoscopico 2015 (cassis, amarena, menta, erbe officinali, liquirizia) esprime setosità e purezza. “È il velluto della buccia del montepulciano che matura sotto l’ombra del tendone” dice Sofia. Il 2010, altro millesimo d’elezione, è più terroso (tabacco), animale (pelliccia), balsamico (menta). Il 2007 è seduzione assoluta: mora, liquirizia, terra, un’esplosione balsamica che s’irraggia e un clamoroso finale di cassis. Il 2003 è un lago di frutti neri, è sangue e tapenade. Il 2001 offre spezie macinate, è carnoso, ematico, persistente.
L’Abruzzo conosce la piana agricola solo in prossimità del mare, come accade a Giulianova, raro caso in Abruzzo di città fondata, intorno al 1470 per mano del duca di Atri Giulio Antonio Acquaviva, che le diede il proprio nome e un impianto urbanistico ortogonale, tipico delle località di mare e così diverso rispetto a quello più sghembo e tortuoso dei borghi collinari. A Giulianova Alta, posizionata su un colle di modesta altitudine, il Duomo rinascimentale di San Flaviano a pianta ottagonale ha una cupola con lanternino sommitale che ricorda, in scala minore, quella brunelleschiana del Duomo di Firenze. La parte più moderna, Giulianova Lido, è una florida città balneare, una delle più vive e attrezzate di tutta la costa. Dal porto si vede la catena del Gran Sasso.
Nell’immediato entroterra di Giulianova, la cantina Faraone, ubicata nella piccola val Tordino, suddivide i propri 12 ettari tra le parti più piane poco fuori dall’abitato di Giulianova Lido, dove c’è la sede aziendale, e il nucleo più collinare con i due ettari a Case di Trento e soprattutto i sette, in forte pendenza, a Collepietro di Mosciano Sant’Angelo. Il MdA Colline Teramane Santa Maria dell’Arco, cinque anni di botte grande, nasce dalle vigne di quest’ultimo situate nella parte più alta, meglio esposta e più sabbiosa. Il 2017, ultima annata in commercio, ha notevole profondità di frutto (mora, cassis, ciliegia), felpa e densità, potenza e grazia. Non gli è da meno, a distanza di dieci anni, il 2007 per qualità tannica, allungo gustativo e carattere sensoriale. Il MdA Monte delle Vigne 2019 (due anni di botte) è succoso, selvatico, invitante. Il padre Giovanni, che ha cominciato i primi imbottigliamenti nel 1970 ed è scomparso proprio nel 2019, definiva i suoi Montepulciano come dei rossi fatti da un bianchista. Federico Faraone, il figlio, primo enologo della famiglia (è nato a Bologna, la città della mamma, ha studiato agraria ad Ascoli Piceno ed enologia all’università di Udine, ha fatto l’Erasmus in Borgogna ed è tornato in Abruzzo nel 2014 dopo una lunga permanenza in Friuli dove ha conosciuto Mariangela, sua futura moglie) ha mano felice ed eclettica anche nei bianchi, come testimoniano il TdA Le Vigne 2023, e soprattutto il TdA Santa Maria dell’Arco 2021 (nocciola tostata, agrume aspro, austerità abruzzese). A causa un’annata falcidiata dalla peronospora, nel CdA Le Vigne 2023 (frutto selvatico e croccante, punteggiature balsamiche, sorso gustoso e contrastato, finale di visciola) è confluito tutto il montepulciano aziendale. Federico è stato il primo in Abruzzo a imbottigliarlo in formato magnum e in azienda si produce da quarant’anni (prima autorizzazione ministeriale del 21 maggio 1983 per la produzione spumantistica in regione) un Metodo Classico da uve passerina, oggi in versione Dosaggio Zero.
Situata nella val Vomano, in contrada Veniglio a Notaresco, Fattoria Nicodemi possiede 25 ettari vitati (tra cui un tendone di montepulciano del 1968), più 6 ad oliveto, tutti a conduzione biologica, in un corpo unico disposto ad anfiteatro intorno a un laghetto. Mi mostra il colpo d’occhio, non senza giustificato orgoglio, Alessandro Nicodemi, che dal 2000, insieme alla sorella Elena, guida l’azienda fondata dal padre Bruno nel 1970. “Gli anziani chiamavano ‘rosso’ il Cerasuolo e ‘nero’ il Montepulciano” dice Alessandro mentre mi fa assaggiare il CdA Superiore Le Murate 2023 (fiori e lamponi, tannino stuzzicante, sensazione sapida finale). Il suo colore è ceraso, come dovrebbe sempre essere, e nella prossima versione del disciplinare (Alessandro è l’attuale presidente del Consorzio Vini d’Abruzzo, il primo di una cantina privata, anziché sociale, a essere eletto) ci saranno delle rigorose specifiche a riguardo per bandire i colori più tenui. I TdA e i MdA delle linee Le Murate e Notari, tutti Colline Teramane, sono inappuntabili, ma quelli della più recente Cocciopesto (dove il vino matura in anfore di malta solidificata, porose come l’argilla ma neutre) possiedono fremiti di maggiore naturalezza. Così il TdA Cocciopesto 2021 (fermentazione spontanea, un anno e mezzo di bâtonnage) traduce l’essenza di arbusti, grano, erbe, fiori e terra di questo bianco, mentre il MdA Colline Teramane Cocciopesto 2021 (quindici giorni di macerazione, sei mesi di anfora e molta bottiglia) offre un frutto netto, vivo, croccante e un sapore compatto, lungo, modulato.
Oltrepassando il fiume Vomano verso Atri, i crinali collinari si moltiplicano, i campi, dove la vigna sembra quasi perdersi tra uliveti, boschi e seminativi, si distendono a perdita d’occhio, gli spazi si aprono e sembrano diventare sconfinati.
La vista dal balcone di Ausonia, che da Atri arriva a Montepagano, sembra abbracciare l’infinito. I silenzi qui sono assoluti. È quello che cercavano Simone Binelli e Francesca Lodi: lui mantovano di Gonzaga, farmacista suo malgrado che a trent’anni si mette a studiare viticoltura ed enologia a Firenze, lei emiliana di Reggiolo, ingegnere meccanico. Approdano qui nel 2007 seguendo le orme di Mario Binelli, il padre di Simone, che conosceva quest’area. È lui, collezionista di farfalle, a identificare quella autoctona che dà il nome all’azienda. Gli ettari vitati sono 14 a corpo unico, tra vecchi tendoni, giovani pergole e spalliere di vent’anni dalle pendenze pronunciate. Dopo la prima vendemmia del 2011, la conduzione diventa prima biologica, poi biodinamica e oggi guarda all’agricoltura rigenerativa. I vini sono spontanei, artigianali, leggiadri. Il TdA Apollo, fremente nel 2022 come nel 2018, è succoso, agrumato, frontale. Il TdA San Pietro 2021, che fermenta e matura in botte grande, integra gli elementi fumé (pietra focaia) al frutto (limone sprimaccino) con allungo severo, tagliente, salino. Il Pecorino Machaon 2022, dieci giorni sulle bucce e undici mesi in anfora di terracotta, è luminoso e suadente, con buccia di lime e ginestra per un profilo che esalta e sublima il carattere irruento del vitigno. Il CdA Apollo 2022 è profumato, selvatico, viscerale, tra note di tamarindo e agrume rosso. L’Apollo Anfora 2022, da uve vinificate ad acino intero con maturazione di un anno in anfora, è una versione stilizzata di montepulciano: vellutato, fruttato, pepato.
Impossibile non visitare Atri, assisa su uno sperone circondato da querce e ulivi, per ammirare la Cattedrale medievale dalla facciata rettangolare (i prospetti orizzontali sono frequenti nelle chiese abruzzesi), poi il portale, il rosone, il campanile e gli affreschi dell’interno; per passeggiare lungo le sue vie e piazzette; per arrivare poi al mare, con le spiagge di Torre del Cerrano distanti una decina di chilometri. La zona di Atri è celebre per i suoi calanchi, spettacolari fenomeni erosivi che aprono voragini lungo le pareti delle colline.
Ce n’è giusto uno di fronte alle vigne scoscese di Agricola Cirelli: si è aperto dopo l’acquisto del podere nel 2003 da parte di Francesco Cirelli, un laureato della Bocconi che ha coronato il proprio sogno di diventare un imprenditore agricolo, un custode del paesaggio. “Qui la terra è sempre in movimento. Belli da vedere, i calanchi sono una minaccia costante per l’agricoltura”, mi dice. Siamo in contrada Colle San Giovanni, nella valle Piomba, ultimo avamposto delle colline teramane prima della provincia di Pescara. L’azienda si trova all’intero delle Riserva Naturale dei Calanchi di Atri, 600 ettari di paesaggio collinare, anche Oasi del wwf. Dal 2006 ha abbracciato la via del biologico e poi del biodinamico, necessari perché le erosioni si propagano più facilmente sulle argille povere di humus. Accanto ai sette ettari vitati, di cui due a pergola, si è attorniato di 1600 piante di fichi di sette diverse varietà, di leguminose e di animali: maiali neri abruzzesi, pecore, galline, oche. È stato il primo in Abruzzo a far fermentare il vino in anfora nel 2011, mentre oggi la vinificazione avviene in acciaio. Il TdA Anfora 2022, due anni di permanenza in anfore da 800 e 1000 litri, è un bianco fresco-floreale, preciso, dritto, persistente. Biondo alla vista come il colore del grano, con un frutto giallo maturo-dorato dalle nuance di miele, il TdA Amphora 2017, la riserva della casa che trascorre quattro anni in anfora, è invece quasi da meditazione. Il CdA Anfora 2022 (macerazione di quattro ore, un anno e mezzo in anfora da 1600 litri) ha vivezza di tamarindo, rose, agrumi e un segno gustativo asciutto, rigoroso, salivare: con l’evoluzione, vedi il 2019, diventa più terroso, boschivo, selvatico. Il MdA Anfora 2021 (sette giorni di macerazione e due anni in anfora) procede per austerità e sottrazione, con erbe medicinali irrorate da un piccolo frutto selvatico e croccante. Il 2020 sfoggia il turgore della marasca, la profondità della mora, la capillarità del tannino.
Nella provincia di Pescara
L’Abruzzo è terra di oliveti: l’oro verde della regione conta ben nove milioni di piante. A Loreto Aprutino, primo comune italiano per densità olivicola (7000 abitanti e un milione e mezzo di ulivi), c’è a riguardo un detto inequivocabile: “Oggi le verdure senza l’olio non le voglio” (nel dialetto loretese, “Uejə li fuejə senz’uejə nni vuejə”). La Dritta Lauretana, cultivar locale piccante e amarognola, risale all’anno Mille ed è stato ritrovato un nocciolo d’olivo risalente addirittura all’epoca degli Italici. L’economia contadina a cavallo delle due guerre si basava sull’olio. Il centro del borgo, uno dei più belli (il nucleo storico medievale) ed eccentrici (non ha una vera piazza) della regione, ospita il Museo dell’Olio, che custodisce gli storici macchinari dell’Ottocento e illustra l’evoluzione nei secoli delle tecniche di lavorazione delle olive. Poco lontano, il Museo Acerbo delle Ceramiche di Castelli è un’altra tappa irrinunciabile: “La ceramica di Castelli è un esempio di stupenda oratoria grafica, una stilistica delle immagini che per continuità e ampiezza non finisce di stupire” (Giorgio Manganelli).
Il comune di Loreto Aprutino è anche la nobile contea del vino pescarese. In un palazzo storico di via del Baio, a pochi metri da Castello Chiola, c’è l’abitazione della famiglia Valentini, la cui storia agricola, risalente al 1650 – primato regionale, blasone nazionale –, comincia proprio con la produzione di olio, di cui è tuttora esemplare interprete (l’estensione olivicola aziendale, 70 ettari, è, seppur di poco, superiore a quella viticola). La svolta enoica arriva molto più tardi, negli anni Cinquanta del Novecento, con la figura di Edoardo Valentini, personaggio pionieristico e carismatico che asseconda la propria vocazione agricola anziché quella avvocatizia di famiglia, producendo vini poi entrati nell’immaginario collettivo. Il figlio Francesco Paolo, che ne prosegue l’opera dopo la sua scomparsa nel 2006, non è meno rigoroso nelle scelte: dai 65 ettari a pergola vengono ogni anno immesse sul mercato dalle 33.000 alle 40.000 bottiglie. “Non creo, non costruisco: assemblo” dice Francesco sulla propria attività di vinificatore. Per lui il punto nodale è il rapporto con la campagna, con la terra, con l’uva, che in cantina si limita a trasformare: può far svolgere la malolattica in bottiglia perché ha a disposizione uve perfette dal punto di vista della sanità (carica batteria positiva), sfruttando l’anidride carbonica, che si forma spontaneamente e che per anni ha fatto storcere il naso a molti, come antisettico e conservante naturale. Le annate del Montepulciano escono sempre più con il contagocce, l’ultima è stata la 2017. Ne sono causa le anomalie generate dal cambiamento climatico: vendemmie anticipate con maturazioni fenoliche incomplete, aumento del pH e dell’indice di trasformazione dello zucchero in alcol sono fattori che limitano fortemente l’equilibrio naturale di un vino, soprattutto rosso, specie se prodotto senza lieviti selezionati, senza controllo della temperatura, senza filtrazioni o stabilizzazioni. Francesco mi fornisce un interessante articolo uscito nel 2019 sulla rivista “Science of the Total Environment” dal titolo Precipitation intensity under a warming climate is threatening some Italian premium wines di Piero Di Carlo, Eleonora Aruffo e William H. Brune, in cui è dimostrato, sulla base dei dati climatici registrati dall’azienda Valentini fin dal 1820, come l’aumento dell’intensità delle precipitazioni durante l’anno (non dei giorni di pioggia, che invece tendono a diminuire) abbia incidenze dannose sui vini di qualità, rafforzando anziché diminuendo gli anticipi di maturazione. È uno dei temi sui quali dialoghiamo nello studio, mentre sorseggiamo due annate di TdA, la 2020, l’ultima uscita (è un bianco di fermenti, contrasti e vibrazioni, di succosità e splendore, di nespola e nocciola) e la 2012, che sa di mandorla sbucciata, di sottobosco, di curry, di erbe, di miele. È una conversazione a quattro: oltre a Francesco, ci sono la moglie Elena e il figlio Gabriele. Parliamo di vino (il fascino delle sue imperfezioni, il concetto di terroir), ma anche del rapporto tra padri e figli, di temi esistenziali e personali, di quanto attorno a noi il mondo sia cambiato. Salutandoci, Francesco mi porge un libretto, Le contrade del vino di Loreto Aprutino, scritto da un ricercatore che ha lo stesso nome di suo figlio, Gabriele Valentini.
A Loreto Aprutino la chiesa di San Pietro Apostolo ospita una cappella dedicata a San Zopito martire, dal 1711 patrono della città al posto di San Tommaso d’Aquino, la cui protezione, a giudizio del contado del tempo, si era dimostrata insufficiente di fronte alle carestie di due anni prima. Durante il trasporto dei resti del nuovo santo, un bue bianco, a differenza del suo padrone, s’inginocchia al suo passaggio. San Zopito viene così onorato ogni lunedì di Pentecoste con la singolare processione di un bue bianco e bardato fatto inginocchiare in alcuni punti del centro storico (il bue durante l’anno non lavora, viene allenato per la genuflessione). Dante Di Tizio ha dedicato al santo della sua città il MdA Terre dei Vestini San Zopito, le cui uve arrivano da una vigna a tendone, potata a due tralci anziché a quattro, che risale al 1969. Il vino matura per nove mesi in barrique di più passaggi. Il 2018 ha polpa profonda di frutto, profilo potente quanto equilibrato, tannino fine e persistente. Il MdA è nelle corde di Dante, come dimostra la Riserva, proveniente da un tendone del 1972 dai suoli sabbioso-calcarei (l’argilla si trova solo a 18 metri di profondità). Il 2019 è un rosso di caratura, ma il 2018 è oggi ancora più espressivo: frutta rossa e nera, polpa succosa e matura, allungo di spezie e inchiostro, finale modulato e armonico. “Alla cieca i Montepulciano migliori sono quelli che arrivano dai tendoni. Il problema è che i vinaccioli non sono più marroni come dovrebbero essere, tendono al verde anche nell’uva appassita che raccolgo a novembre per la marmellata”. L’azienda di Dante, acquistata nel 1997 dal padre Luciano, si compone di 29 ettari a conduzione biologica, si chiama Torre Raone e prende il nome da una torre di avvistamento eretta nell’xi secolo dal conte normanno Raone da Poliano: è circondata dai vigneti aziendali con un effetto scenico che non lascia indifferenti, specie al tramonto quando il sole scende dietro il Gran Sasso.
I coniugi Fausto Albanesi, ex ingegnere, e Adriana Galasso, ex commercialista, sembrano aver trovato nella Torre dei Beati (è una raffigurazione presente nel Giudizio particolare delle anime, meraviglioso affresco della chiesa di Santa Maria in Piano) il nomen omen del loro carattere estroverso, sorridente, positivo. Come i vini che producono da più di vent’anni. Il TdA Bianchi Grilli per la Testa 2022, dall’ettaro accanto all’azienda in contrada Poggioragione (vendemmia notturna, un anno sulle fecce in acciaio e poi tonneau di acacia) ha carattere rurale (erbe, fiori, fienagione) e tratto fresco-sapido. Ancora più espressivo, al suo secondo anno di vita, il TdA Abruzzo Diverto 2022, dal terroir di Francavilla, mezzo ettaro in pendenza aperto verso il mare. “Ha un grappolo grande con acino piccolo, che tende al rosa quando matura. Qui non faccio macerazione perché ho paura della buccia” dice Fausto. Rimane un anno nei clayver di ceramica. Che succo, che accensione, che sapore! Il lato gourmand (tamarindo, sottobosco) del CdA Rosa-ae 2023 arriva da una triplice tecnica: vinificazione in bianco a grappolo intero, salasso dalla vasca del rosso, macerazione a freddo sulle bucce. I due Montepulciano Riserva provengono dai due migliori ettari dei sette della contrada (impianti del 1972) e sono frutto di raccolte scalari in vigna. Il più “tradizionale” è il Cocciapazza (toponimo di un fosso locale, letteralmente “testa matta”, rinominato Poggio Ragone per una petizione della comunità): il 2020 è trionfo di materia fruttata, spezie e sostanze ematiche, il 2007 è oliva balsamica, mora di rovo, tannino lungo e ruggente, il 2006 è al contempo orizzontale e verticale, è frutto di bosco e sottobosco, è china e liquirizia, è lavanda e menta, è personalità e persistenza. Il più “eterodosso” è il Mazzamurello (folletto abruzzese) con 20 mesi in barrique come il precedente, ma con un bâtonnage sulle fecce fini per i primi otto mesi. Il 2020 è più minerale, più medicinale, più lunare, ha spinta, asprezza e un tannino imperioso, il 2009 è apologo di erbe officinali e medicinali, è vigoroso e compatto, il 2006 è profondità nera, di frutto e minerali, è china calissaia, è inarrestabile forza motrice.
Penne è un’altra gemma incastonata lungo l’anello dei Vestini (Spoltore, Loreto Aprutino, Città Sant’Angelo), l’antica popolazione italica, ovvero preromana, di cui un tempo questa cittadina era capitale. Sorge su quattro colli (solo Roma ne ha di più, dicono), ovvero Colle Sacro, Colle Romano, Colle Castello e Colle Cappuccio, tra le valli di due fiumi, il Tavo e il Fino. È la porta d’accesso al Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga. Valeria De Melis e suo marito Francesco Delle Monache ne conoscono ogni palmo, ogni anfratto: porte, chiese, palazzi, musei, vie. Situata in contrada San Pellegrino, Tenuta De Melis nasce ufficialmente nel 1999 con l’acquisto da parte di Carmine De Melis di alcuni vigneti tra Penne e Loreto Aprutino, sommate a quelli già di proprietà a Rosciano (la tradizione agricola di famiglia risale agli inizi del Novecento) per un totale di 15 ettari, quasi tutti a tendone. Il primo imbottigliamento è datato 2018. Classe 1989, la figlia Valeria ha studiato Scienze del turismo in Bicocca (Milano), è attualmente iscritta a Viticoltura ed enologia presso l’Università di Teramo e segue la vinificazione (in azienda c’è anche il fratello Stefano). La linea Bardasce (“giovanotto” in abruzzese), offre vini schietti: un gustoso CdA 2023 che profuma di rose e ha il sapore del melograno e del tamarindo, un MdA 2023 che ha contrasto e importante corredo tannico. Più profondo, il MdA Riserva Caposaldo il Principio 2021 (un anno e mezzo in barrique di secondo passaggio, unico vino aziendale a non essere filtrato) possiede ampio spettro sensoriale (menta, spezie, sangue, sottobosco), densità, vigore, persistenza. Per nulla secondaria la vocazione sapida del TdA 2023, dalla vigna più vecchia (50 anni) di Rosciano.
Incontro Giuliano Pettinella presso l’Abbazia di San Clemente a Casauria, una delle più belle architetture benedettine d’Italia. Ha un portico di severa simmetria, un portale istoriato da magnifici bassorilievi, dei severi battenti in bronzo dorato e un interno che lascia senza respiro per l’interpretazione basilicale dello spazio, la purezza delle linee, l’assenza di decorazioni sulle pareti, dove riluce la pietra bianca della Maiella. Di recente Giuliano ha trasferito l’azienda Pettinella da Silvi Marina, provincia di Teramo, dove ha una vigna di montepulciano non lontana dal mare, a Tocco da Casauria, luogo cui è legato fin dall’infanzia. Qui il padre Giovanni aveva una vigna che veniva curata dal cognato, anche lui di nome Giovanni, ed è proprio nella casa del padre, nel centro del paese, che Giuliano ha ricavato gli spazi della cantina. Laureato in Giurisprudenza a Macerata, ha esercitato l’avvocatura fino al 2020, quando ha deciso di fare il produttore a tempo pieno (anche la moglie Francesca, lodigiana d’origine, è un’ex avvocata convertita alla causa del vino: segue gli imbottigliamenti e la parte amministrativa). A Tocco Giuliano ha piantato nel 2015 un ettaro in pendenza di montepulciano (da un clone locale, ribattezzato “toccolano”, e da un altro della valle Peligna), con alberelli a tre branche su pali di castagno, e un altro mezzo ettaro quattro anni fa, sempre ad alberello, in contrada Marano, che guarda la Maiella e il Morrone. Il CdA Tauma 2022 (fermentazione spontanea, sei mesi in barrique usate e diversi travasi) ha carattere rurale, umorale, selvatico all’olfatto, con un palato che trasmette un senso di uva, di visciola, di ciliegia, di pepe, di ginepro, di minerale: succoso, modulato, continuo. Tauma significa “gemello” in aramaico, un omaggio alle figlie gemelle nate nello stesso anno del primo imbottigliamento di questo vino, il 2010. Il MdA 2022 ha profondità di colore, di frutto (amarena, cassis), di sensazioni minerali, una bocca piena, compatta, potente, aggraziata, saporita, che fa presagire un futuro luminoso.
Nella provincia di Chieti
È il territorio più esteso della regione (parte da Francavilla al Mare, al confine con Pescara, fino a Vasto, in prossimità del Molise), il più presidiato dal punto di vista viticolo (è il regno del tendone), il più popolato di cantine sociali. Da Ortona a Vasto si snodano i 42 chilometri della “Via verde della costa dei trabocchi” (questi ultimi sono antiche macchine da pesca oggi riadattate per la ristorazione), una pista ciclo-pedonale che scorre lungo il tratto dell’ex ferrovia sulla riva del mare più bello della regione.
Sul Colle Rotondo tra Francavilla e Chieti, a 200 metri di altitudine dove lo sguardo incrocia il mare e la montagna, la famiglia Pesolillo ha costruito nel tempo il proprio angolo di paradiso. Nonno Domenico acquista il podere nel 1961 cominciando a coltivare vigneti e uliveti, papà Giuseppe apre prima l’agriturismo nel 2002 e poi decide di staccarsi dal conferimento per imbottigliare in proprio, seguendo personalmente il vigneto. I suoi figli sono tutti coinvolti nel progetto aziendale nato nel 2019: Marco, il maggiore, segue la sala del ristorante e la parte amministrativa, Luca presiede alla cucina e la cantina, e Lorenzo, il più giovane (classe 1989), si occupa della parte commerciale. Gli ettari sono 15, tutti in biologico, su terreni prevalentemente sabbiosi. Il vino più interessante della gamma mi è sembrato il MdA Riserva 2020, annata ideale per questo rosso, che proviene dalle ultime uve raccolte, da una vinificazione in acciaio, da un anno in barrique di primo e secondo passaggio, e da un altro anno in bottiglia che diventeranno due nelle prossime uscite. Ha caratura fruttata, personalità tannica, equilibrio, freschezza, sapore.
San Martino sulla Marrucina è un sonnacchioso paese su una collina alta 465 metri ed erosa dai calanchi in vista della Maiella, dove può capitarvi d’incontrare l’astronomo Giovanni De Sanctis, nativo di qui, che durante la sua carriera ha scoperto più di 40 asteroidi, a due dei quali ha dato il nome di Marrucina e Maiella. La Marrucina è l’antica strada preromana che collegava Guardiagrele a Chieti ed è stata aggiunta al nome del paese da un regio decreto del 14 novembre 1864 per distinguerlo dagli altri cinque comuni di nome San Martino presenti nel Regno delle Due Sicilie. Terra di “polverieri”, cioè di produttori di polvere di sparo, questo comune vanta la fondazione del Pastificio Masciarelli, il più antico d’Italia (1867), oggi gestito da Agostino Masciarelli a Pratola Peligna. Al centro del paese c’è una piazzetta intitolata a un altro Masciarelli, Gianni, con una targa commemorativa che dice: “Straordinario vignaiolo e geniale produttore sanmartinese che ha rivelato al mondo, con il suo vino, la storia, le tradizioni e le emozioni della sua terra”. Dopo la sua prematura scomparsa nel 2008, l’eredità delle Tenute Agricole Masciarelli è stata raccolta con intraprendenza e spigliatezza dalla moglie Marina Cvetic, legata al mondo del vino fin dall’infanzia, quando a sei anni, in Croazia, aiutava il nonno, viticoltore e bottaio (e sono proprio due le spettacolari bottaie – quella dei rossi dal cielo stellato e quella dei bianchi tra le rocce della Maiella – della cantina di San Martino). “Ho studiato tecnologia alimentare, mi sono sposata presto e non ho finito l’università, investo nella formazione e mi circondo di persone giovani, energiche e dinamiche. Siamo gli artigiani del futuro” dice di sé. Oggi dirige un impero produttivo di 300 ettari suddivisi in 60 appezzamenti lungo le quattro province, con una cantina per provincia (le altre tre sono a Controguerra nel teramano, a Loreto Aprutino nel pescarese e a Ofena nell’aquilano), due milioni e mezzo di bottiglie vendute in 55 paesi per 28 etichette su 8 linee, tra cui una biologica, più un’importazione di vini esteri. All’origine di tutto questo ci sono i due ettari e mezzo che Gianni Masciarelli prese in affitto dal nonno nel 1981 all’età di 25 anni, quando ancora studiava economia all’Università, che decise di lasciare per produrre vino dopo un viaggio in Borgogna e Champagne. La linea Marina Cvetic, dedicata da Gianni alla moglie, è molto gettonata: il MdA 2020, da cinque vigneti del chietino vinificati separatamente con un anno in legno (barrique di primo e secondo passaggio o talvolta tini per renderlo più longilineo), ha profondità materica, note di grafite ed erbe medicinali, tannino vigoroso, finale fresco. Gli fa adeguata compagnia il MdA Riserva 2019 della linea Iskra (in slavo “scintilla”), dalle vigne di Controguerra nel teramano: profuma di amarena e mora, ha tatto felpato, polpa fruttata, contrasto gustativo, tannino ruggente. La linea Villa Gemma – dal nome della casa-cantina di Gianni situata di fronte all’attuale azienda, dove arrivò a produrre 800.000 bottiglie – è la più rappresentativa: da un CdA 2023 (prodotto dal 1981) d’indubbia e godibile vocazione gastronomica all’impeccabile MdA Riserva 2018 (il vino più celebre, in produzione dal 1984, quando fermentava in cemento per poi passare alla barrique nel 1990, dove oggi trascorre un anno), che colpisce per potenza d’inchiostro, cremosità fruttata, fodera tannica, lunghezza gustativa. Per tacere di un 2012 arioso e invitante dalle note fresco-bordolesi, pieno quanto dinamico, profondo e contrastato, dal tannino regale e dall’accensione balsamica finale. Proprio da quest’annata il MdA Villa Gemma viene curato da Miriam Lee Masciarelli, la figlia di Gianni e Marina. Ambedue questi vini sono prodotti con le uve del vigneto Cave, le ultime che vengono vendemmiate: cinque ettari impiantati nei primi anni Novanta con 9000 piante per ettaro a 380 metri di quota in un contesto favorito dalle escursioni termiche. Meno conosciuto, il TdA La Botte di Gianni 2019 è una rarità prodotta solo nelle migliori annate (in precedenza 2017, 2016, 2013): meno di 900 bottiglie provenienti da un tonneau di 700 litri dove il vino, imbottigliato poi a mano, trascorre 18 mesi. Ha un carattere di erbe e un boisé raffinato, coniuga struttura e sottigliezza, il finale esibisce temperamento e sapore. Il Castello di Semivicoli, infine. Originario del xviii secolo e di proprietà dei baroni siciliani Perticone, fu acquistato da Gianni Masciarelli nei primi anni Duemila in stato di rudere senza riuscire a vedere terminata l’opera di restauro, che è stata mirabile: conservativa e rispettosa, con il recupero di tutte le strutture originarie, dal frantoio più antico d’Abruzzo (1868) alla pavimentazione e al mobilio d’epoca delle stanze: un wine resort di charme. Anche qui nasce un rosso di personalità: il Castello di Semivicoli Rosso 2020 (uvaggio di montepulciano, cabernet sauvignon e merlot in percentuali variabili secondo l’annata) è carnoso, equilibrato, rifinito, saporito.
Vasto, “antichissima città, ariosa, aperta, alta sul mare”, come la descriveva Mario Soldati in Vino al vino, è da ammirare dalla cima del campanile di Santa Maria Maggiore, la chiesa più importante della città, più importante perfino della Cattedrale. Da quassù si comprende la forma ellissoidale di piazza Rossetti, sorta sui resti di un anfiteatro romano, si ammira la squadrata monumentalità di Palazzo d’Avalos, ci si perde con lo sguardo lungo l’Adriatico: la marina di Vasto con gli ultimi trabocchi, le Tremiti al largo, le prime colline del Molise e il profilo del Gargano all’orizzonte. Camminando per il centro storico tra porte e palazzi, ecco l’imponenza del castello caldoresco, la passeggiata panoramica lungo la loggia Amblingh o il portale gotico, unico pezzo sopravvissuto della chiesa di San Pietro, che incornicia l’azzurro del mare. Per la molteplicità degli scorci, Vasto andrebbe sempre chiamata Il Vasto, suo nome storico: è una delle poche città del mondo, come Il Cairo o Il Pireo, che può fregiarsi dell’articolo prima del nome.
Nella campagna dell’entroterra l’azienda agricola Fontefico abbraccia un’agricoltura polivalente: vigneti (15 ettari a coltivazione biologica sul promontorio di Punta Penna, accarezzati dalla brezza del mare), uliveti e frutteti più due ettari di tulipani e uno di lavanda. Rilevata da Alessandro Altieri, la tenuta, adibita a cantina nel 2006, è condotta dai figli Nicola ed Emanuele. “Vogliamo fare vini genuini, salubri, eleganti. Niente di meglio che ascoltare un vino per interpretarlo” dice quest’ultimo. A riguardo il TdA Superiore Terre di Chieti Porta Rispetto ha un nome perfino icastico. Il 2023 e più ancora il 2022 offrono spiccati sentori agrumati (lime, cedro, pompelmo), vibrazioni sapido-pietrose, persistenza minerale. Il Pecorino d’Abruzzo Superiore Terre di Chieti La Canaglia (il nome deriva dalle difficoltà provocate dal vitigno durante le potature e le fermentazioni, che posso durare anche due mesi prima di arrivare a secco) è, nelle stesse due annate, più rustico e sulfureo, di sprezzatura acido-sapida, mentre il Pecorino La Foia 2021, versione in cemento con permanenza sulle fecce fino a gennaio, presenta più solidità e ricchezza senza perdere la vibrazione interna tipica dei bianchi della casa, tutti da vigneti a spalliera. Il CdA Superiore Terre di Chieti Fossimatto 2023, “pensato contro la stile provenzale” (sempre Emanuele), ha bisogno di tempo per dipanarsi, come dimostra un 2017 più espressivo sia sul versante aromatico (tamarindo, note balsamiche), sia sul fronte tannico. Più estremo in termini di sostanza e pienezza il “cerasuolo” Febbre d’Abruzzo 2021, nome che sintetizza al meglio l’effetto travolgente e inaspettato che questa regione può provocare all’anima di chi la percorre per la prima volta. Le uve di montepulciano provengono da terreni argillo-sabbiosi, percorsi da macchie calcaree e ciottoli di fiume. “Arrivano solo dalla pergola, la pergola è spezia, liquirizia, cenere, il filare è più denso, è cioccolato. I vecchi contadini chiamano il tendone ‘vigna’ e la spalliera ‘filari’, tanto che la manovalanza ogni tanto si confonde”. Nel MdA Cocca di Casa solo in 20% della massa va in barrique e tonneau di più passaggi. Di veste cardinalizia, il 2021 ha uno spettro sensoriale plurimo (mora, china, liquirizia, cenere), mostrando un incedere denso e dinamico, mentre il 2020 sfoggia l’oliva, le erbe aromatiche e officinali, un tannino di rango. A pranzo mamma Gabriella cucina il brodetto alla vastese, il cui diminutivo non rende ragione di un piatto succulento e pantagruelico, una zuppa al pomodoro e peperoncino con dentro almeno una dozzina di pesci interi, servita in un tegame di terracotta, con pane tostato da intingere e il colpo di scena finale della pasta (qui gli spaghetti, ma potrebbero essere dei capellini) cotti nell’acqua e poi amalgamati nel sugo rimasto all’interno del coccio. Una delizia.
L’autore ringrazia per la preziosa collaborazione il Consorzio Tutela Vini d’Abruzzo.