Salita e discesa dal carro del vincitore

I miei pluridecennali tentativi di scardinare i luoghi comuni nel mondo del vino si sono già misurati varie volte con il fenomeno tutto italico della salita sul carro del vincitore che poi, al cambiare del vento, diventa discesa precipitosa e immediata derisione dell’ex vincitore stesso.
Prendiamo il caso esemplare del vitigno simbolo del cosiddetto Rinascimento del vino italiano, il merlot. Anni fa scrivevo: qualcuno conosce questa strana varietà di uva, chiamata “merlot”? Pare che sia un vitigno a bacca rossa. Dicono che se ne ricavi una bevanda molto apprezzata nel Borneo, e presso alcune tribù dell’America Centrale. Chi riesce a procurarsene una bottiglia, è pregato di farcene provare almeno un sorso.
Un tempo amato appassionatamente, oggetto di tutte le attenzioni di produttori, giornalisti, enologi, enofili, enotecari, esperti, il Merlot è oggi una sorta di brutto anatroccolo. Un intoccabile, un appestato.
Non ci sono più i merlottisti di una volta
Attualmente la situazione non è granché cambiata. Colleghi che avevano i calli alle mani per le pacche sulle spalle che distribuivano ai wine-makers merlottisti adesso irridono i rossi non dico a base di “merlot in purezza”, ma anche quelli dove entri soltanto una quota minoritaria dell’impresentabile varietà. In un qualsiasi consesso di enofili farsi sfuggire l’ammuffito nome Merlot significa beccarsi sorrisetti di compatimento, come se parlando di gastronomia uno citasse le penne alla vodka degli anni Ottanta.
Come sempre la realtà è più sfrangiata e mal si incastra in questa gabbia prefabbricata. È senz’altro vero che il merlot sia un’uva dal carattere più docile e plasmabile rispetto all’augusto cabernet sauvignon o al raffinato cabernet franc. E che in centinaia di casi – soprattutto dalle distese di vigneti nordorientali della penisola – abbia generato vini insignificanti, piuttosto informi, senza rilievo, quando non crudi e immaturi. Ma è altrettanto vero che, nelle giuste condizioni e nelle giuste mani, sia una varietà capace di risultati validissimi, e talvolta sorprendenti.

Un esempio da prendere in considerazione
È un’evidenza solare nel bordolese, dove i migliori merlot danno vini luminosi e rinfrescanti, certo non mallopponi indigesti. Ma senza scomodare Bordeaux, anche in terra italica si possono trovare rossi a base di merlot degni di nota. Un esempio per tutti? Il valido Casarsa di Villa Calcinaia, un rosso tosco che nelle annate migliori (leggi in primis la stilizzata 2015, e in misura meno compiuta la 2020) sa offrire pienezza senza pesantezza, maturità di frutto senza mollezza, agilità e progressione senza toni vegetali.
Altro che appestato.

La seconda foto è di Jeff Siepman su Unsplash.