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Social ESG
16/06/2024
Di Redazione AIS

Sfruttamento nel vino: dal dibattito globale alla realtà italiana

Mentre a livello internazionale si invoca più trasparenza e responsabilità sociale, un’analisi approfondita del caso italiano svela un fenomeno sistemico. Lo sfruttamento del lavoro, dal caporalato 2.0 alla pressione sui prezzi, mette in discussione l’intero modello produttivo.

L’industria del vino, celebrata per il suo legame con il territorio e sempre più attenta alla sostenibilità ambientale, sta iniziando a fare i conti con la sua dimensione sociale, un capitolo a lungo trascurato e denso di criticità. La necessità di un dibattito franco e di un’assunzione di responsabilità collettiva è emersa con forza da una recente tavola rotonda organizzata dalla Wine Society, i cui contenuti sono stati riportati dalla giornalista Arabella Mileham. Questo spunto internazionale offre una cornice essenziale per comprendere le sfide specifiche del contesto italiano.

Nel suo reportage, Arabella Mileham evidenzia come gli esperti concordino su un punto fondamentale: il mondo del vino deve rompere il silenzio sulle condizioni di lavoro. Dom de Ville, direttore della sostenibilità e dell’impatto sociale della Wine Society, ha usato parole chiare, definendo il dibattito su questi temi “ancora acerbo”.

“Nel nostro mondo c’è un ostacolo in più”, ha dichiarato de Ville secondo quanto riportato da Mileham, “tendiamo a parlare molto meno delle condizioni dei lavoratori rispetto ad altri settori, e questo frena ogni progresso. Siamo diventati bravissimi a discutere di ambiente – il peso delle bottiglie è un tema che ha guadagnato molta attenzione, così come l’agricoltura rigenerativa o i pannelli solari – ma la dimensione sociale resta in ombra”. La sua conclusione è netta: le criticità sono “sistemiche” e richiedono una “responsabilità collettiva”.

Questo approccio, proattivo e non più reattivo, è stato il fulcro dell’intervento di Jantine Werdmuller von Elgg, co-CEO di Stronger Together. Mileham riporta la sua citazione della politica britannica Jess Phillips: “Quando un’azienda sostiene di non aver rilevato alcun rischio, quasi certamente non sta guardando con la dovuta attenzione”. Werdmuller von Elgg ha insistito sulla necessità di agire senza attendere gli obblighi di legge, fissando indicatori chiari e superando la logica dei “compartimenti stagni” all’interno delle aziende, dove la sostenibilità finisce per essere un tema isolato. “Bisogna chiedersi chi siano i nostri ‘occhi e orecchie’ sul campo”, ha spiegato, sottolineando come la percezione di chi lavora in vigna possa essere molto diversa da quella dei vertici. Per questo, ha concluso, “non basta porre domande dirette, che spesso sono destinate a ricevere risposte di comodo”.

Le riflessioni riportate da Arabella Mileham trovano un’eco potente e una declinazione specifica in Italia. Qui, lo sfruttamento del lavoro nella filiera vitivinicola ha smesso da tempo di essere un’anomalia, per rivelarsi un fenomeno strutturale e nazionale.

L’anatomia di un problema nazionale

Contrariamente ai luoghi comuni, il problema non è confinato al Mezzogiorno. Le inchieste degli ultimi anni hanno svelato un “quadro diffuso di sfruttamento” anche nei distretti più prestigiosi del Nord. Nelle Langhe, culla di Barolo e Barbaresco, le cronache del 2024 hanno documentato casi di caporalato con lavoratori costretti a turni di 10 ore per 5 euro l’ora. Nelle colline del Prosecco DOC, si è assistito a una proliferazione di società di comodo usate come meri intermediari di manodopera. Lo sfruttamento prospera anche nelle filiere più ricche.

Le forme che assume sono molteplici. Accanto al lavoro nero, dilaga il cosiddetto “lavoro grigio”: contratti formalmente regolari che mascherano paghe da fame (la media annua lorda è di appena 6.000 euro), orari estenuanti e violazioni della sicurezza. Le donne e i lavoratori migranti, la cui posizione è resa precaria da leggi sull’immigrazione che legano il permesso di soggiorno al contratto, sono le vittime più esposte.

Le cause sistemiche e una risposta insufficiente

Alla radice del fenomeno vi sono precise dinamiche economiche. Il caporalato si è evoluto in un sistema di intermediazione più sofisticato (“Caporalato 2.0”), alimentato dalla pressione della Grande Distribuzione Organizzata (GDO), che con la sua richiesta di prezzi sempre più bassi spinge i produttori a tagliare i costi, sacrificando per primo quello del lavoro.

Di fronte a ciò, l’Italia si trova in un paradosso: possiede una legge contro il caporalato (la Legge 199/2016) molto forte sulla repressione, ma debole sulla prevenzione. Si “curano i sintomi” con operazioni di polizia, ma le cause strutturali restano intatte. La potente lezione del confronto tra il modello virtuoso di Saluzzo, basato sull’integrazione e il supporto ai lavoratori, e quello delle vicine Langhe, dove prevale l’invisibilità, dimostra che la sola repressione non è sufficiente.

Una responsabilità collettiva

La via d’uscita, tanto a livello globale quanto nazionale, risiede nel concetto di “responsabilità collettiva”. Come emerso dalla tavola rotonda, la soluzione richiede un cambio di paradigma. Le aziende sono chiamate ad adottare processi di due diligence sui diritti umani, a privilegiare l’assunzione diretta e a garantire un salario dignitoso. I grandi acquirenti devono adottare pratiche di acquisto responsabili. Le istituzioni devono riformare le leggi che generano ricattabilità.

Ignorare la sostenibilità sociale non è più un’opzione. In un mercato globale sempre più attento ai criteri ESG, lo sfruttamento è un pesante passivo aziendale e un danno d’immagine per l’intero Made in Italy. La soluzione, quindi, non può venire da un singolo attore, ma da alleanze territoriali e di filiera, per garantire che dietro ogni bottiglia ci sia non solo la bellezza di un paesaggio, ma anche la dignità e il rispetto per le persone che la rendono possibile.

Redazione AIS
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