Stile libero
Rubrica laica e trasversale sul mondo del vino

Un Greco secco della costa reggina
Dopo aver inserito un Greco di Bianco in una degustazione dedicata ai passiti, Umberto Ceratti, produttore di questo vino a Casignana (la famiglia perpetua questa tradizione da diverse generazioni), mi chiama per complimentarsi della scelta (benché intriso di storia, questo passito è ancora semisconosciuto) e per spedirmi i suoi vini prodotti in un angolo dell’affascinante Locride, sulla riva dello Ionio, lungo l’incantevole Costa dei Gelsomini, dove nel VII secolo avanti Cristo, si dice, i coloni greci sbarcati presso il promontorio di Zefirio, l’odierno Capo Bruzzano, abbiano introdotto la vite. Dopo la scomparsa del padre Pasquale (“Signore schivo e discreto, quanto capace e tenace” scrive su di lui Gianfranco Manfredi su Il Quotidiano del Sud), avvenuta nel dicembre dello scorso anno, Umberto è rimasto da solo a condurre l’azienda. Produce il Greco di Bianco in due versioni e un Mantonico, sempre nella bottiglia ad anforetta, ancora più seduttivo (“Mi dicono che si chiama Mantonico perché ha il colore del manto del monaco” scrive Mario Soldati in Vino al vino durante la visita a Umberto Ceratti, omonimo del nipote), ma qui parlo di un altro figlio, non passito e ancora meno conosciuto, di questa terra assolata: un Greco secco chiamato Rùdina (dal greco rodeon, “luogo dove fioriscono i melograni”). Vinificato in acciaio, il 2023 mi ha sorpreso per il suo colore intenso, così giallo da sembrare un topazio, per le note di frutto caldo e agrumato, per i suoi sentori di erbe, per la maturità della sua polpa, per il suo profilo mediterraneo. L’ho quasi maltrattato – mi piace mettere a dura prova i vini, specie i bianchi, per sfatare i luoghi comuni – tenendolo in frigo per diversi giorni e continuando ad assaggiarlo per trovare tracce di cedimento: invano, con mia soddisfazione. I giorni sono diventati mesi e l’ultimo bicchiere l’ho degustato dopo un tempo tanto irriferibile quanto impronosticabile. Ebbene, tutto ancora restituiva quella solarità accecante (i fiori gialli, le erbe gialle, la pesca gialla, la susina gialla) che questo fatato angolo della Calabria riverbera negli occhi.
Il Piacentino che non ti aspetti
Dopo esserci visti al ristorante La Palta, Enrico Sgorbati mi ha spedito una campionatura di sfide e sorprese da Torre Fornello, la sua incantevole tenuta sulle colline di Ziano Piacentino. Ilbertè 2010 è un metodo classico a dosaggio zero di pinot nero che ha trascorso 132 mesi sui lieviti (sboccatura luglio 2022): colore paglierino vivo, profondità di frutti rossi, sentori nocciolati, sfumature balsamiche, evoluzione complessa, carbonica calibrata, sottile, apportatrice di sapore, allungo intenso e modulato. In pochi, credo, assaggiandolo alla cieca, lo avrebbero allocato qui. Lungi dall’essere provato dal tempo, il Colli Piacentini Sauvignon Ca’ del Rio 2006 si è rivelato, dopo 18 anni, un vino dal colore ancora dorato vivo, dall’olfatto cangiante di fiori, di agrumi, di pietra focaia, di pesca, di salvia, dal sorso aromatico, brillante, fitto di erbe, di buccia di limone, di menta. Chi ci avrebbe scommesso? L’Ottavo Giorno è un originale passito da uve croatina raccolte ad agosto e fatte disidratare per quattro mesi nella vinsantaia del Seicento e poi pigiate assieme a un 15% di malvasia di Candia aromatica botritizzata, il tutto vinificato in bianco con maturazione per tredici mesi in barrique. Il risultato è un vino dal colore rosa antico con striature ambrate che profuma di scorza d’arancia, di caramella Rossana, di prugna, di lieve botrite, con un palato denso, di natura dolce/non dolce che vira al secco, pungolato dal tannino e scandito da un profilo tra un elisir al rabarbaro e un vermouth alle erbe: qualcosa di spiazzante, di stravagante che si fa ricordare. Enrico ci ha messo otto anni per realizzarlo come voleva ed è diventato anche un vino ufficiale da messa.
Profondo Nero d’Avola
Parlare del Duca Enrico potrà sembrare quasi pleonastico: non è certo un vino insolito o particolare (tema primario, quantunque non esclusivo, di questa rubrica) e nemmeno poco conosciuto (uscito per la prima volta nel 1984, è uno dei principali artefici del rinascimento enologico siciliano), eppure questo 2000, che si fregia sulla bottiglia del bicentenario della casa madre (la venerabile, benemerita Duca di Salaparuta nata nel 1824) e che ho assaggiato in tre distinte occasioni (un altro tema, quello delle occasioni, di questa rubrica), mi è sembrato uno dei più espressivi degli ultimi tempi. Nasce dal nero d’Avola impiantato nel 1998 presso la Tenuta di Suor Marchesa di Riesi, provincia di Caltanissetta, nella parte centro meridionale dell’isola, uno dei luoghi più caldi di tutta la Sicilia, ma, assaggiando il vino, non lo diresti mai: è un tale irraggiante concentrato di salsedine, di acciuga, di oliva, di macchia mediterranea, che lo diresti di Pachino o dintorni. Una vinificazione tecnica (fermentazione alcolica in acciaio, malolattica in cemento, maturazione di circa un anno e mezzo in barrique, nuove e di secondo passaggio) tutta al servizio del carattere.
Un Cerasuolo granato
Il Cerasuolo d’Abruzzo non è un vino rosso (come il siciliano Cerasuolo di Vittoria, assai diverso) e, a ben guardare, non è un nemmeno un rosato o rosa o rosé, famiglia cui presuntamente appartiene. Il suo colore ricorda quello della “cerasa”, la ciliegia, da cui il nome (attualmente lo spettro cromatico dei Cerasuolo abruzzesi è abbastanza eterogeneo e il Consorzio sta agendo per disciplinare anche il suo aspetto), la sua identità è quella dell’assoluto abruzzese. Durante l’ultimo Vinitaly è stata messa alla prova anche la sua longevità, con una degustazione verticale di diverse annate che dalla 2024 retrocedeva, quasi vertiginosamente, alla 1979. Quest’ultima arrivava, manco a dirlo, dalla cantina Valentini (chi altri avrebbe potuto averlo?). Ed era un Cerasuolo d’Abruzzo trasfigurato nel colore (un granato trasparente dai bordi mattonati), nell’evoluzione terziaria (sottobosco, terriccio, radici) e nella vivezza gustativa (nocciola, cuoio, tartufo). Un vino étonnant.
La foto di apertura è di Tim L. Productions su Unsplash.