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Vino
18/06/2025
Di Massimo Zanichelli

Stile libero

o le occasioni del vino

Tapenade a Sarzana

Non mi era ancora capitato di visitare Sarzana sotto la pioggia. La Cattedrale con il Crocifisso di Mastro Guglielmo datato 1138, la Cittadella o Fortezza Firmafede dove stavano inaugurando una mostra su Giorgio De Chirico, la fortezza di Sarzanello, la Porta Romana (così diversa da quella di Milano) e la pasticceria Gemmi dove comprare il buccellato e la spungata (così diversa dalla spongata reggiana che mangio da quando ero ragazzo). Poi a casa di cari amici che non vedevo da tempo. Sul tavolo una bottiglia. “Di un produttore della zona” mi dice Davide. È un bianco, anzi un ambrato, che si chiama Particella 906, dal nome catastale di una vigna di Sarzana. L’annata 2021 è composta da un 60% di vermentino e da una restante parte di albarola, trebbiano e malvasia, macerati sulle bucce per circa otto giorni. La cantina si chiama Luna Mater (quasi due ettari e mezzo di vigna tra Sarzana e soprattutto Castelnuovo Magra, sede aziendale) e la conduce Massimo Ricci, vignaiolo che pensa “naturale” senza estremismi. Il vino profuma di erbe, frutta candita, caramella d’orzo, balsami, ha un volume pieno, succoso al palato e un tannino vivo. Poi arriva il Poderino – assemblaggio di sangiovese (60%), merlot, cabernet sauvignon e syrah con un 40% di maturazione in barrique di quarto passaggio per circa un anno – e si accende una luce imprevista. Il 2020 ha infatti un manto amaranto e un olfatto che sprigiona tapenade, oliva nera, garrigue, spezie macinate. La bocca è succosa, tonica, con un tannino sottile e un allungo ematico-terroso: un lago di frutti neri su fondale balsamico. Più che a Bordeaux sembra di essere nel Languedoc-Roussillon.

L’elicriso, l’elicriso!

Ero andato a vedere un bastimento carico di Adelphi dall’amico Giorgio Bacchetta all’Alfea Rare Books in via Scaldasole a Milano (a due passi dalla Basilica di Sant’Eustorgio e dal Museo Diocesano, a quattro, facciamo otto, dalle Colonne di San Lorenzo), una libreria antiquaria (ma anche con libri d’occasione e di modernariato) che sembra uscita dalla Bottega dell’antiquario di Dickens. E poi sono finito, anzi siamo finiti, a pranzo in un altro luogo del cuore, sempre a due passi da lì, la Macelleria Popolare di Giuseppe Zen al Mercato della Darsena. Inutile credo fare l’elenco delle delizie che abbiamo mangiato (tra mondeghili, roast-beef all’inglese, midollo, stigghiola, cervellina fritta, e mi fermo qui), più utile, almeno per questa rubrica, fare l’elenco delle bottiglie aperte: Durello Metodo Classico Dosaggio Zero Arione 2016 (sboccatura 2022) di Daniele Piccinin, il Monferrato Bianco 2020 (da uve baratuciat) di Enrico Druetto, il Tir à Blanc 2020 (grenache gris, grenache blanc, carignan blanc, malvoisie) di Les Vins du Cabanon, Il Rosso 2021 (sangiovese) di IlBioSelvatico, il Menuit (gamay, chenin, grolleau) di Simon Rouillard,il Coteaux Champenois Azy Rouge 2018 di Christophe Lefèvre, il Cahors 2018 di Chateau Combel La-Serre. Tutti vini del “fronte naturale”, spontanei, vibranti, talvolta turbolenti. Il vino che quel giorno (siamo arrivati alle 13.30 e usciti alle 18, stando in piedi al bancone) mi ha lasciato il segno più forte è stato però l’Òua 2019 in magnum della cantina La Ricolla di Daniele Parma. L’intenso colore giallo zafferano poteva lasciare sulle prime un po’ circospetti e invece era solo il preludio a uno scenario sensoriale che sembrava aver racchiuso tutta la macchia mediterranea (ah la menta, ah l’elicriso!) e il senso salmastro del Golfo del Tigullio. La macerazione sulle bucce per 14 giorni in anfore di terracotta amplificava anziché comprimere il corredo aromatico custodito dalle vigne trentennali di vermentino nei pressi della Basilica dei Fieschi a Cogorno, risalente al xiv secolo e costruita in ardesia (pietra di Lavagna). A dirla poi tutta, c’è stata un’altra bottiglia memorabile: il Vinsanto del Chianti 2004 della Fattoria di Fiano di Ugo Bing.

Il Taburno di una volta

L’amico Antonio Medici, commercialista e docente per professione, gourmet e giornalista per vocazione, in spola tra Benevento e Milano, viene a trovarmi con dei “pensierini” gastronomici (salsiccia di Castelpoto di Masseria Maio; taralli, anzi ‘mscuott, “biscotti” cotti due volte, bolliti e nel forno, di La Matarca a Castelvenere; i torroni baci della Premiata Fabbrica Cav. Innocenzo Borrillo a San Marco dei Cavoti) e una bottiglia di vino chiamato Sussulto che ha in etichetta l’immagine di un cerchio concentrico (mi ha ricordato quella della locandina di Vertigo di Hitchcock, da noi La donna che visse due volte) e una bella storia dietro.
“Cautano è un piccolo paesino della provincia di Benevento, alle pendici sud del monte Taburno. L’area è particolarmente vocata alla coltivazione della vite, ci sono vigne secolari, ma non si è mai sviluppato un vero tessuto produttivo, se non familiare: nelle case di Foglianise, Cautano, Vitulano, Castelpoto si nascondono bevitori da una e anche due bottiglie al giorno. A Cautano ho un amico, non di lunga data ma di profonde affinità. Suo padre, contraddicendo la tradizione delle ‘uve ammiscate’, cioè mischiate, conduceva due vigne piantate ad aglianico. La prima in località Loreto è scoscesa, ha suolo tufaceo e può essere raggiunta solo con il trattore o con il fuoristrada. La seconda in contrada Sala è invece più facile da lavorare e ha un suolo più morbido. A seguito della perdita di alcune annate di vino, andato a male probabilmente per approssimativa vinificazione, mi fu proposto di condurre le vigne in cambio di metà del vino prodotto. Un accordo verbale, tra galantuomini. E così è stato. Era il 2017 e l’annata fu particolarmente propizia. La famiglia del mio amico stimò un prodotto di 300 litri, quindi 150 a testa, che però non sarebbero bastati per il loro consumo annuo. Nonostante la mia offerta di rivedere la quantità a loro vantaggio, mantennero fermo l’accordo e acquistarono altro vino per le loro esigenze. Il vino ha riposato in serbatoi d’acciaio per quasi un anno presso le Cantine Tora a Torrecuso prima di essere imbottigliato. Gli ho dato il nome di Sussulto perché il primo giorno che entrai in vigna per vendemmiare fu registrata una piccola scossa sismica con epicentro a Cautano”.
Questo Vino Rosso del Taburno 2017 è carnoso, solido, marmoreo. Ha un frutto pieno, profondo, vulcanico-mediterraneo. La sua potenza alcolica (non dichiarata) è radicale: picchia in testa, rimbalza nella mente, non fa sconti né prigionieri. Un’esperienza. Più che un sussulto, un terremoto.

Fremiti etnei

Architetto catanese, attivo tra la città natale e Milano (dove si è laureato), titolare con Luta Bettonica dello studio di architettura e design Bettonica Leone, Giancarlo Leone è anche fotografo: la sua mostra The City on the Water, fotografie di architetture italiane ed europee riflesse nell’acqua, sta facendo il giro dello Stivale e quest’anno è presente anche alla Biennale di Venezia (se vi capite d’incrociarla, guardatela, le foto sono bellissime). Giancarlo ama anche le cose buone della vita ed è un intenditore di vini. A casa sua, in zona Navigli, incontro quelli di Giuseppe Lazzaro, viticoltore etneo con cantina a Milo e vigneti anche nel versante nord. Tutti i vini fanno fermentazione spontanea con lieviti indigeni attivati dal “mosto madre”. Lo Spariggiu 2023 è un rosato di nerello mascalese che nasce da un assemblaggio di tre mosti: il primo macerato per un giorno (80% della massa), il secondo per due giorni (20%) e il terzo da una vinificazione in bianco. Ha spirito gagliardo, stile rurale, beva rinfrescante. L’Acqua Tinta 2023 (70% nerello mascalese con saldo di sangiovese, minnella bianca, carricante e moscato) fa solo acciaio con una fermentazione sulle bucce per un paio di giorni più qualche ora a contatto con le vinacce del nerello. Ha colore rubino limpido e chiaro, frutto selvatico di sottobosco vulcanico, anima di lampone lavico, tannino graffiante, finale fresco-succoso. Il Russucori 2022, nerello mascalese con macerazione di oltre un mese e un anno di maturazione in acciaio, vivacizzato sulle prime da una sottile carbonica naturale che non ha conseguenze negative sul lato aromatico (non fatevi spaventare), sfoggia una succosità tonica e pepata, una pienezza piritica, un allungo spontaneo e persistente. In tutti si sentono le vibrazioni della Muntagna.

Photo credit: Britta Nord

Massimo Zanichelli
Massimo Zanichelli

È degustatore professionista, wine writer e documentarista. Per quindici anni ha lavorato per il Gruppo Editoriale L’Espresso, firmando la guida I vini d’Italia (2002-2016) e la rubrica “La bottiglia” del settimanale “L’Espresso“. Ha scritto il Nuovo Repertorio Veronelli dei vini italiani (Veronelli Editore, 2005), I Grandi Cru del Soave (Peruzzo, 2008), Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi (Bietti, 2017), Il grande libro dei vini dolci d’Italia (Giunti, 2018), I quattro elementi del vino italiano. La Montagna (Bietti, 2022). Collabora con “Vitae”, “James Magazine”, “L’AcquaBuona”, “Civiltà del Bere”. Tra i suoi documentari sul vino: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Nel nome del Dogliani (2017), La casa del Pinot Nero (2020), Mosnel di Franciacorta (2024).

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