Stile libero
o le occasioni del vino

Vini di culto a Castelnuovo Magra
Castelnuovo Magra è un antico borgo dei Colli di Luni liguri che gode di un panorama circolare sui dintorni, dalla costa tirrenica alla val di Vara. Qui, ai tempi della Guida Vini l’Espresso, ho fatto decine di degustazioni dedicate alla Liguria, qui ho stretto amicizia con Giampaolo Giacomelli, che quelle degustazioni le organizzava e con il quale le condividevo. Di recente, mi sono recato a casa sua per un’altra degustazione, una di quelle degustazioni trasversali che adoro condurre. I vini, scelti da me e serviti alla cieca, erano undici, come una formazione di calcio (proprio qui a Castelnuovo Magra ricordo di aver visto, in una casa privata, la semifinale del Campionato del Mondo 2006 tra Italia e Germania, gol di Grosso e Del Piero alla fine dei supplementari). Ne citerò solo alcuni per questioni di spazio. Il Munjebel Bianco 2021 di Frank Cornellissen essudava elargizioni sulfuree, scie di sciara, sensazioni sapido-vulcaniche. Tutto era viscerale, tutto era elegante. Il Feldmarschall 2020 di Tiefenbrunner era un fremito di rocce sbrecciate, di scisti rocciosi, aveva una temperatura montana nel sangue (la vigna di müller thurgau è a 1000 metri di quota) e la bocca era una vibrazione di succhi minerali. L’Ungeheuer 2021 di Bassermann-Jordan era un Grosses Gewächs (“grand cru”) di Riesling che ancora una volta testimoniava l’alto magistero della casa e il mezzo miracolo cui ogni volta si assiste davanti a un Riesling della Pfalz, territorio dai tenui rilievi e dalle pendenze moderate che genera dei bianchi verticali: merito di un clima baciato da Dio e di una pedologia tra le più stratificate (qui arenarie rosse, rocce calcaree, argille, scisti e basalti). Secondo un celebre aneddoto locale, Otto von Bismarck, davanti a un Riesling proveniente da questo cru (che in tedesco significa “mostro”), pare dicesse “Dieses Ungeheuer schmeckt mir ungeheuer”, ovvero “Questo mostro mi piace mostruosamente”. Ecco, appunto: il “mostro” ci ha ancora una volta deliziati. La Malvasia di Bosa Riserva 2017 Columbu (almeno tre anni in botti di castagno scolmate con formazione di flor) era l’apogeo dell’ossidativo marino e il trionfo del dolce/non dolce: frutta secca, alga, combustioni empireumatiche, iodio, con spropositata lunghezza salina. Tanto quanto il Passito di Pantelleria Bukkuram 2014 di De Bartoli (uve appassite all’aperto per una quindicina di giorni, poi sgrappolate a mano e infine immesse nel mosto in fermentazione dello zibibbo secco) è invece l’apoteosi della dolcezza mediterranea e salmastra: erbe aromatiche (rosmarino), macchia mediterranea (elicriso), fichi secchi, albicocche secche, carrube, noci (tutti al plurale), ebanisteria, liquirizia.
Una Posta memorabile
Una sera d’estate alla Posta di Monforte d’Alba, a cena con Aldo e Milena Vajra dopo aver assaggiato alcune annate del loro magnifico Riesling Pétracine, ho ritrovato l’aria un po’ dimenticata della vera ristorazione, quella dove vieni accolto in una bella, spaziosa, confortevole casa di campagna, dove ti viene dato in mano un menu che misura 31 x 46 centimetri, uno di quelli che vorresti collezionare (infatti me lo sono portato a casa) e dove trovi non solo piatti appaganti come il rotondino di vitello cotto al forno con la salsa tonnata all’antica maniera (buonissima) o il delizioso peperone cotto al forno con crema di tonno, acciughe e uovo sodo (un altro inno alla cucina locale), ma anche dei secondi al forno, come la quaglia ripiena di carne e verdura o l’agnello da latte con timo e maggiorana, in cui è, vivaddio, specificato che ci vuole un’ora di tempo per cuocerli. Abbiamo cominciato con lo Smaragd Ried Hochrain 2022 di Franz Hirtzberger, un memorabile Riesling della Wachau che era profondità e leggiadria, purezza e persistenza, con alcune note di frutta esotica innestate sul corpo agrumato-minerale che sembravano provenire da un tocco millimetrico e cristallino di botrite. Poi mi sono fatto tentare da un’etichetta di culto, l’Hill of Grace 1992 di Henschke, uno Shiraz australiano dell’Eden Valley proveniente da vigne prefillossera piantate nel 1860 su una piana alluvionale a 400 metri di quota che lambisce un’antica abbazia luterana, alla quale è stata dato il nome di una regione della Slesia, di cui sono originari gli Henschke, conosciuta come Gnadenberg e ribattezzata “Hill of Grace” (“Collina della Grazia”). Nella prima, minimale quantità per l’assaggio, il vino espandeva clamorosi sentori di terra ed eucalipto, ma più il bicchiere veniva riempito e più si materializzavano certe ruggini ossidative, soprattutto a livello olfattivo, che ne disturbavano la poesia sensoriale e l’integrità organolettica. Siamo andati su e giù per un po’ ma il vino non cambiava spartito: perfetto a fondo bicchiere, imperfetto a bicchiere colmo. Una cosa stravagante. La densità, la felpa e il carattere ne facevano comunque, anche in una bottiglia, al di là degli anni (non pochi), evidentemente non perfetta (e contestata dal sottoscritto, alla luce anche del prezzo), un’esperienza, la seconda che mi capitava di provare verso questo vino leggendario, di assoluto valore. Mentre arrivano i secondi piatti, il sommelier propone, se non un’alternativa, un’integrazione: il Brunello di Montalcino Tenuta Greppo 2017 di Biondi Santi. La sua gioventù, in rapporto al 1992 dell’Henschke, era scioccante, ma la sua anima emetteva sussurri olfattivi che spaziavano dalla viola alla marasca all’alloro (raro da sentire in un sangiovese di Montalcino), mentre al palato pulsavano gagliardie temperamentali e tannini cesellati. In chiusura la sfogliatina calda di mele con marmellata di albicocche, sorbetto alla mela verde e Calvados, per almeno venti minuti d’attesa: un’altra delizia. Che bella mano quella di Gianfranco Massolino, la cui tradizione gastronomica di famiglia è legata a Monforte dal 1875.
Classe e fuoriclasse
Voghera è diventato un luogo del cuore perché da più di vent’anni, nel centro storico della città presso la libreria Ubik di via Emilia, tengo, grazie alla complicità di Paco Orsi, libraio, batterista (suona nei Radio Days) e divoratore di film, dei matinée domenicali dedicati alla storia del cinema. Di ritorno dalle Langhe, sabato 12 luglio accetto un invito a pranzo a casa di Felice Albertazzi e Vittoria Zanusso, una coppia che da anni segue i miei corsi (lui lavora presso LVMH, lei è avvocato). Trait d’union, manco a dirlo, il vino. Sulla loro tavola campeggiavano due bottiglie di rinomanza internazionale, due vini di classe assoluta, due generi complementari che hanno felicemente convissuto a tavola. Il primo era lo Champagne Brut Grande Cuvée 170éme di Krug. I celebri e prestigiosi vintage di questa maison rappresentano l’eccezionalità di una vendemmia, la Grande Cuvée, invece, la regolarità della casa, la sua affidabilità, il suo stile, la sua griffe. La 170a edizione è un assemblaggio di 195 vini di 12 diverse annate: la più giovane è la 2014, quella più vecchia la 1998. I vini di riserva rappresentano il 45% di un taglio che vede il pinot nero al 51%, lo chardonnay al 38% e il pinot meunier all’11%. Il vino è un’armonia di complessità e freschezza: il colore è dorato quanto luminoso, l’olfatto screziato di sentori di pan d’épices e agrumi freschi, di brioche e buccia d’arancia, la carbonica è un soffio, il contrasto un frisson, il finale un diapason di sentori e persistenze. Il secondo era il Sauternes 1998 di Château d’Yquem. Figlio di un’annata considerata “moyenne” al pari del 2000 e del 2004 – schiacciata tra una vendemmia perfetta (1997, il più grande millesimo del decennio) e una che lo era quasi (1999) –, qui a Yquem, come già si erano accorti Michel Bettane e Thierry Desseauve nel loro Le classement 2004 des meilleurs vins de France, che gli avevano assegnato uno spettacolare 9,5 contro il 10 del 1997, si sfiora il capolavoro: il colore è un giallo oro-arancio di scintillante luminosità, il naso freme e impazzisce per il tripudio di sentori (zafferano come se non ci fosse un domani, kumquat, frutta esotica), la bocca è sedotta da un’elegante, penetrante botrite, la densità non ha mai un bemolle di troppo, l’acidità risplende, la persistenza è plurima, infiltrante, con un tocco finale di pepe bianco. Insomma, qualcosa che non smetteresti mai di bere e che rimane insediato nel cervello per giorni e giorni.
Photo credit: Britta Nord