Storia nobile del Salento. Tre verticali in casa Conti Zecca
Accade spesso di imbattersi in vecchi adagi e proverbi locali – rigorosamente incomprensibili e intraducibili! – nei quali sono inscritti luoghi e modi secolari, usanze e costumi, persino mappe del tesoro: una sorta di geografia popolare, ampiamente condivisa dalla comunità. È il caso di quell’ormai desueta formula salentina che prescriveva “Utte te Caddhripuli, vinu te Sava”, ovvero “Botti di Gallipoli, vino di Sava”.
L’antico detto non sbagliava. Da un lato – verso sud – le pregiate e rinomate botti di Gallipoli che vantavano la fiorente fattura dei maestri bottai (se ne contavano ben 600 alla fine del XIX secolo); dall’altro il vino pregiato, di qualità e gradazione considerevoli, del piccolo comune tarantino, in agro manduriano: quel vino nero di Sava che “macchiava le tovaglie”.
Una racconto che inizia nel Cinquecento
Torniamo proprio in queste terre, perfettamente nel mezzo delle due antiche città del vino e dell’artigianato. Oggi siamo a Leverano: venti chilometri dal capoluogo Lecce, otto dal mare di Porto Cesareo. E qui incontriamo una storia antichissima e nobile, una di quelle che riempiono d’orgoglio una regione intera: la cantina Conti Zecca.
Anzi, a ben guardare il marchio aziendale, leggiamo: Conti Zecca Millecinquecentottanta. Una data che ci riporta molto indietro nel tempo, in “un altro Rinascimento” che nel mezzogiorno d’Italia vedeva avvicendarsi regni e influenze veneziane e napoletane. Ed è proprio sul finire del XVI secolo che la famiglia partenopea degli Zecca, guidata dal visionario Francesco Antonio Zecca, inizia a esplorare le terre di Leverano, intuendone la fertilità e le potenzialità agronomiche dei suoli. Passeranno tre secoli e l’avvicendamento di numerose generazioni fino a quando, nel 1884, la famiglia Zecca acquisisce sul campo l’autorità nobiliare per volere di Papa Leone XIII che conferisce il titolo comitale a Giuseppe Zecca, anche per aver contribuito alla bonifica di alcuni territori oggi centrali nella produzione.
Dall’uva al vino. Si giunge al 1935 quando Alcibiade Zecca fonda una moderna ed efficiente cantina a Leverano, dove ancora oggi è il cuore gestionale dell’azienda. Da questo momento in poi, Conti Zecca diventa sinonimo di avanguardia e di orgoglio salentino, uno dei pochi attori protagonisti di una viticoltura sempre più aperta al mercato nazionale ed estero.
“Vini icona” e “Vini del territorio”
Oggi l’azienda vanta tre degli areali più importanti della fascia jonica, operando a una zonazione virtuosa e mirata. I suoli sabbiosi, fossili e limosi di Veglie destinati a bianchi e rosati di grande finezza e sapidità; quelli argillosi di Salice Salentino garantiscono struttura e tannino ai più opulenti negroamaro; i ferrosi terreni di Leverano sono garanzia di carattere e mineralità. A questa intuizione di circoscrivere i cru, segue anche la scelta di produrre due linee enologiche: i cosiddetti “Vini icona” con cui Conti Zecca ha conquistato il mercato dell’alta ristorazione, e i “Vini del territorio”, diretta espressione dell’identità territoriale grazie alla valorizzazione in purezza dei vitigni autoctoni tradizionali.
Nelle mani delle ultime generazioni – i giovanissimi Clemente Zecca, produttore, accanto all’enologo Matteo Esposito – la storica azienda “napolentina” guadagna apprezzamenti di assoluto rilievo, anche per via di un rigoroso orientamento produttivo vocato alla sostenibilità economica e ambientale, nel segno della parola chiave: “responsabilità”. Quasi un mantra per chi guarda da secoli con fiducia e rispetto verso il territorio, anche negli anni più complessi del cambiamento climatico che impone ripensamenti drastici e continua ricerca. Tutt’intorno la devastazione della xylella insegna a governare i processi alla perfezione, cercando una equilibrata alleanza con la natura e i suoi ritmi. I terreni inerbiti per consentire l’azotofissazione delle piante di orzo e trifoglio e le pacciamature secche per trattenere l’umidità nel terreno sono solo alcune delle pratiche di rinnovamento del giardino viticolo dei Conti Zecca, a cui si affiancano le accortezze rivolte ai grappoli e ai vini in ogni fase di vendemmia, lavorazione e affinamento.
Fiano, malvasia, negroamaro, chardonnay e cabernet sauvignon
Capofila di una rivoluzione giovane e tenace, questa azienda ha saputo anche distinguersi per un’altra singolare sfida, quella del tempo. Qui a sud il vino è fatto di terra, di mare e tanto sole, alle volte troppo sole, non certo la migliore condizione per garantire spalle forti e orizzonti lunghi di affinamento. Eppure Conti Zecca sa sfatare questi miti, ricercando il perfetto bilanciamento tra terroir, vitigni e pratiche di cantina, giungendo a governare i processi temporali anche nel corso dei decenni, come queste mini verticali che qui vi proponiamo dimostrano alla perfezione. I cavalli di battaglia? Il fiano (degna eredità campana!), la malvasia e il negroamaro (si gioca in casa), lo chardonnay e il cabernet sauvignon (hai detto Francia?).
LUNA. Bianco Salento IGP
Il nome è già uno sguardo al cielo. Come facevano i nostri avi consegnando al nostro satellite il governo del tempo, delle stagioni, delle raccolte e dei travasi. Oggi della luna restano i bagliori accecanti del fiano e la consuetudine di assaporare questo vino in un’atmosfera conviviale, durante le notti estive salentine.
Blend 50:50 di malvasia e chardonnay. Nei primi del 2000, quando nasce questo vino, l’internazionalità era una regola di sopravvivenza. Farne un marchio identitario, tuttavia, non era facile. Il vino, durante le lunghe macerazioni sulle fecce fini, sosta in parte in acciaio e in parte in barrique dove è sottoposto a bâtonnage settimanali, prima dell’assemblaggio e di altro affinamento tra acciaio e bottiglia. 30mila le bottiglie prodotte.
2022
Cristallino e acceso il paglierino dentro il calice. L’estate siccitosa del 2022 si annuncia già all’olfatto con penetrante e verticale intensità che lascia avanzare verso il naso una corazzata di vaniglia e frutta esotica, accanto a note resinose e di coriandolo, legnose e di cenere, di incenso. Corpo, struttura, rotondità: il vino è masticabile e diverte, ridestando sul fondo la mela e il pompelmo amaro in fin di bocca.
2017
Paglierino spesso, vira sul dorato dentro il calice. Naso evoluto sulle note resinose e di foglia di tè, bergamotto e zenzero, sulla scia di una vaniglia che sostiene i toni suadenti della pesca e dell’ananas sciroppata. Ancora fresco, balsamico, con nitore di bocca e leggero tannino.
2016
Millesimo tra i migliori di sempre, tra i primi 100 vini al mondo per l’americano Wine Spectator. Dorato con vividezza luminosa. Il legno è più risolto, assorbito nella trama equilibrata di fieno e frutta in confettura, anche lasciando che la malvasia s’esprima al meglio con la sua fierezza aromatica e mediterranea. Acido e sapido, il vino avanza al palato con gusto deciso e dinamismo, protraendosi in una persistenza inarrestabile.
LIRANU. Negroamaro Rosso Leverano Superiore DOP
Liranu è il nome dialettale di Leverano, una scelta che conduce immediatamente verso il territorio e il suo vitigno più vernacolare: il negroamaro. Qui i Conti, già da decenni, sperimentano tecniche moderne di allevamento – il guyot – e di conduzione agricola – il biologico.
Il caldo di fine settembre ancora impone la refrigerazione dei grappoli, tenuti per una notte a 9 gradi per poi essere fermentati interi, lentamente, macerando per 8-10 giorni e poi affinando in carati da 30 ettolitri al fine di garantire micro ossigenazione e polimerizzazione dei tannini
2021
Diamante rubino, mediamente trasparente nel calice. Esordio agile ma austero di vino “performante” che promette fragranza di frutto nero accanto a note di cacao, tè nero, carrubo, timo e carciofo. Una danza aromatica nella macchia mediterranea. Lieve e ricamato il tannino sul palato, con il sopraggiungere dell’arancia sanguinella su un finale asciutto ed elegante.
2019
Intenso, elegantissimo rubino. Al naso si sprigionano aromi e sapori generosi e ben calibrati sulla frutta rossa, il goudron, la liquirizia e il sottobosco. Convincente l’equilibrio acido-tannico; lungo il finale che rievoca le note di vaniglia e lievi tostature.
2017
Si compatta nel colore e si fa scuro, impenetrabile. A qualche piccolo cedimento di riduzione fa da contraltare il carico di provviste balsamiche e mentolate, di note al caffè, cacao e ciliegia sotto spirito, mostrando il carattere irruento di un negroamaro ben maturo.
NERO. Rosso Salento IGP
La Puglia che vince, che sfida i blasoni, che valica i confini del tempo e dello spazio. Il nome del vino è sia un riferimento al suo vitigno principale, il negroamaro (niger + mavros, ovvero due volte nero) ma anche al mistero e alla magia della notte in qualche fazzoletto della campagna non inquinata dai led: una magica, millenaria oscurità.
I terreni a Salice Salentino sono profondi, di struttura franco-argillosa, ricchi di sostanza organica: una vera e propria riserva naturale di nutrienti per la vite.
Qui fa anche la sua nobile comparsa il cabernet sauvignon, al 30%, e si prende la sola quota di barrique, prima di affinare in blend in legno grande e bottiglia.
Un vero “Super Apulian” firmato Giorgio Marone, enologo allievo ed amico del grande Tachis.
2020
Carminio compatto, solido. Apre su note di mirtillo e prugna in confettura, ritmando cannella e noce moscata in una tessitura di spezie e vegetale. Balsamico, fresco di mentolo, ginepro e alloro. Lunghezza appagante che conferma la struttura armoniosa e la freschezza.
2017
Lievemente più scarico il colore, tracce granato-ramate. Il naso esplora sentori goudron, accostando il carrubo alla noce e mostrando una percussione di nobilissima eleganza che fa dell’annata il punto di eccellenza dell’iconica etichetta.
2010
Granato illuminato. Tutto il garbo di una terziarizzazione ben modulata, tra note di smalto e ceralacca, echi pelletteria e sauvage, scia terrosa e speziature. Il cabernet si fa sentire, lascia la sua impronta di eucalipto e liquirizia, tabacco e cedro. Simmetrico nell’equilibrio delle dinamiche finali.
2005
Sfida titanica per un rosso del sud. La corteccia, la china, il rabarbaro a fare da scheletro olfattivo. Insospettabile freschezza per una bocca verticale, delicatamente tannica e armonica. La sfida ai Bourdeaux è servita, forse forse con qualche anno ancora di sorprese.
2003
Dicevamo, le sorprese… Cuore granato, bordatura aranciata. Come addentrarsi nella macchia mediterranea, sentire la terra dentro l’aria, rinnovare la memoria dei fichi secchi e della nocciola tostata, accanto a note di ciliegia sotto spirito. E ancora, liquirizia, cannella e cacao, incenso, rivoli di fresco mentolo. La bocca cede appena a un calo acido ma regala fino in fondo la scorza d’arancia e la legna arsa, carezzando il palato con tannino setoso.