Un termine del passato che suggerisce qualcosa al presente

Parlo della definizione gallica di souplesse. Tra il 1985 e il 2000, quando il vino italico stava faticosamente uscendo dal repertorio di sgrammaticature tecniche (deficit di maturazione delle uve, acidità fisse devastanti, spunti acetici, ossidazioni precoci, riduzioni irredimibili, magrezza estrattiva, eccetera) che ne aveva minato la credibilità, si era diffusa come un passaparola magico tra gli enologi la linea guida della souplesse e di un suo aggettivo scudiero, il moelleux: termini che possiamo tradurre liberamente come “morbidezza” e “somma di due sensazioni di dolcezza e untuosità” (secondo la definizione di Jean Siegrist).
Avvolgenza nel calice
A rigor di vocabolario, in francese souplesse sta più puntualmente per elasticità, flessibilità. Ma nel mondo del vino – almeno nel mondo del vino di qualche decennio fa – indicava in modo particolare l’avvolgenza che un insieme armonioso di sensazioni gustative e tattili offriva in un dato vino.
Al tempo si trattava di affermare un principio semplice: il vino non è né un liquido gustativamente neutro e insignificante – quale quello sterilizzato delle cantine industriali, che sfornavano vini bianchi quasi indistinguibili nel colore e nel gusto dall’acqua – né il guazzabuglio di approssimazioni che veniva genericamente rubricato come “vino del contadino”. Il vino doveva essere piacevole da bere. Lapalissiano, scontato, ovvio, ma all’epoca nemmeno troppo.

Alla ricerca di souplesse
In nome della ricerca di souplesse, o meglio della sua interpretazione più disinvolta e distorta, abbiamo poi assistito alla deriva che ancora oggi resiste qua e là come reperto di un passato che stenta a morire: vini caricaturalmente morbidi, anzi molli, senza spina dorsale; vini mancati come il sacco informe che impediva al ragionier Fracchia di restare seduto davanti al suo capoufficio.
Per una inevitabile reazione storica si è arrivati nel ventennio successivo alla celebrazione delle sue controparti organolettiche: la “mineralità”, la “tensione gustativa”, la sapidità tannica; fino alla coerente conseguenza dei vini “estremi”. I quali, bianchi o rossi che siano, di solito si sono proposti al contempo acidi, salini, minerali, tannici, amarognoli, ma quasi mai “fruttati” (per carità!) o tantomeno morbidi (orrore!).

Morbidezza e tensione gustativa
Se questa sommaria ricostruzione è vera, ne consegue che il concetto di souplesse non è proprio un ferrovecchio, e che ha ancora qualcosa da dire sia ai produttori che ai bevitori meno fanatici. Prima di buttarlo in mare conviene forse girarci intorno con qualche riflessione. Non è un crimine che alcuni dei migliori rossi del mondo abbiano – oltre al carattere, alla ricchezza estrattiva, alla finezza e alla sapidità tannica, alla persistenza – anche il bonus della souplesse: un’avvolgente morbidezza può accompagnare armoniosamente una vibrante tensione gustativa, controbilanciarla come in un sistema di spinte e controspinte architettoniche.
Ovviamente la faccenda è molto complessa, e certo la ricerca di souplesse non si può adattare come un espediente universale a tutte le tipologie di vino: alcuni vitigni danno origine a vini classicamente nervosi e austeri, e cercare di “arrotondarli” dandogli una parvenza di souplesse (in cantina) equivarrebbe a snaturarne la personalità. Ma da qui a rigettarla anche in tipologie che possono averla nei caratteri originari e se ne possono avvantaggiare, ce ne corre.