Vigneti sotto le bombe: il dramma dei produttori libanesi
Mentre i missili devastano la Valle della Beqāʿ , cuore dell’enologia libanese, i viticoltori lottano per la sopravvivenza e la salvaguardia di un’antica tradizione. Un report di Barnaby Eales su Wine – Searcher.
Elias Maalouf, proprietario di Chateau Rayak, racconta con voce tremante l’incubo vissuto: “Mi sono riparato dietro un muro mentre un’enorme bomba israeliana danneggiava la mia cantina e la mia casa. Mio padre era al piano inferiore, intento a preparare il keshek, un formaggio tradizionale. Alle porte della cantina, molte persone sono morte nei loro veicoli, colpiti dalle esplosioni. Finestre, porte, il tetto… tutto distrutto. Bottiglie infrante, attrezzature danneggiate. Sono grato di essere vivo”.
La testimonianza di Maalouf, enologo di quinta generazione e cristiano libanese, giunge dalla sua azienda vinicola a Rayak, nella Valle della Beqāʿ, cuore pulsante della produzione vinicola libanese, una tradizione millenaria che affonda le sue radici ai tempi dei Fenici. Questa regione, caratterizzata da una forte presenza sciita, è diventata roccaforte di Hezbollah, la milizia libanese nata in seguito all’invasione israeliana del 1982.
Era il pomeriggio del 23 settembre quando la bomba si è abbattuta sulla cantina di Maalouf. “Avevamo ricevuto un avviso da Israele solo 30 minuti prima”, racconta, “non c’era tempo per fare nulla. Mia moglie è corsa a prendere i bambini a scuola e li ha portati a Byblos, nel nord del Libano. Di fronte a casa mia c’è un magazzino che si pensa fosse usato da Hezbollah per immagazzinare armi. Non sapevamo a cosa servisse, era una vecchia scuola abbandonata. Quando bombardano posti del genere, l’effetto delle esplosioni è devastante”.
Un video pubblicato sull’account Instagram di Chateau Rayak mostra l’entità dei danni: un enorme buco nel tetto, tegole rosse sparse sul pavimento, detriti metallici all’esterno. Maalouf è stato così scosso dall’accaduto che ha dovuto lasciare la cantina per due giorni.
I produttori libanesi, ancora una volta, si trovano ad affrontare le conseguenze di una guerra non voluta. Alcuni sono riusciti a evacuare le famiglie, altri non possono raggiungere le vigne a causa delle strade bombardate. Dopo una lunga guerra civile e anni di conflitti e invasioni, è quasi un miracolo che la produzione vinicola sia sopravvissuta fino ad oggi.
Faouzi Issa, di Domaine des Tourelles, descrive la situazione come “drammatica”. “Due bombe sono cadute a 500 metri dalla nostra cantina“, racconta. “Abbiamo raccolto quasi tutta l’uva per il vino, ma non quella per i distillati, come l’Arak, che coltiviamo in zone sotto attacco. La logistica è un incubo, il 90% del mercato libanese è chiuso e anche le esportazioni sono bloccate“.
Karim e Sandro Saadé, di Chateau Marsyas, aggiungono: “La situazione nella Valle della Beqāʿ è precipitata. I collegamenti con Beirut sono pericolosi, le strade sono nel mirino dei bombardamenti. Abbiamo raccolto l’ultima parcella di Cabernet Sauvignon una settimana fa, ma siamo molto preoccupati per la sicurezza dei nostri lavoratori e per l’intero calendario agricolo”.
Diversi produttori paragonano questa invasione a quella del 2006. Secondo le autorità libanesi, oltre 1000 persone sono state uccise e più di un milione sono state sfollate a causa dei raid aerei e dell’invasione israeliana.
Anche nel nord del Libano, Eddie Mersel di Mersel Wines avverte l’impatto del conflitto. “Una bomba ha danneggiato una strada e ha causato un blackout“, racconta. “Perché qui? Hezbollah non è presente in questa zona. Abbiamo dovuto interrompere la vendemmia per motivi di sicurezza”.
Ramzi Ghosn, co-proprietario di Massaya, ha costruito due cantine, una sul Monte Libano e una nella Valle della Beqāʿ, proprio per ridurre il rischio legato alla guerra. “La nostra cantina nella Beqāʿ è vicina al caos e non possiamo raggiungere i vigneti nel nord”, spiega.
Molte aziende vinicole non sono state colpite direttamente, ma tutte subiscono l’impatto psicologico della situazione. Gaston Hochar, di Chateau Musar, afferma: “Abbiamo dovuto apportare modifiche logistiche per garantire la sicurezza dei nostri dipendenti. Fortunatamente, avevamo terminato la vendemmia prima dell’inizio degli attacchi aerei”.
Anche George Sara, di Chateau Ksara, si rifiuta di lasciare il Libano. “La mia famiglia è partita per Nizza, ma io resto qui”, dichiara. “Sono momenti di grande stress, lavoriamo in circostanze difficili. Ma non posso andarmene, ho delle responsabilità. Mia madre è malata e viene curata qui”.
Chateau Ksara, il più grande produttore libanese, aveva completato il 90% della vendemmia prima dell’escalation del conflitto. “È un altro momento tragico per il Libano”, afferma Sara, “ma siamo abituati alla guerra. Nel 2006 rischiammo di perdere l’intero raccolto e durante la guerra civile il personale fu rapito e la cantina occupata dai soldati. Viviamo con l’instabilità, il nostro modello di business e la nostra mentalità sono sempre pronti al piano B. Già a giugno avevamo preso provvedimenti per spedire il vino in anticipo in caso di chiusura del porto di Beirut”.
I produttori libanesi chiedono una soluzione pacifica e duratura per palestinesi, israeliani e libanesi. “La violenza non risolve nulla”, afferma Gaston Hochar. “Serve una pace duratura, altrimenti il problema si ripresenterà per le prossime generazioni“.
A Rayak, Elias Maalouf continua a lavorare l’uva che è riuscito a raccogliere prima del bombardamento. “Metà del mio raccolto è rimasto in vigna“, dice con amarezza. “Non potrò più vendemmiarlo, la macina è distrutta. Avevo investito in nuove attrezzature per avviare le esportazioni, ma ora è tutto danneggiato“.
Maalouf trascorre le giornate in cantina e le serate a fare la guardia alle proprietà abbandonate, per proteggerle dai saccheggi. “Molti edifici sono senza porte e finestre“, spiega, “e c’è chi ne approfitta per rubare. Mi hanno già portato via delle attrezzature“.
Mentre la moglie e i figli sono al sicuro a Byblos, Maalouf rimane solo a Rayak, in un clima di angoscia e incertezza. “Ero arrivato ad avere 80 dipendenti durante la vendemmia”, racconta, “ora sono tutti andati via. Come avrei potuto pagarli? Chi avrebbe mai immaginato una cosa del genere? Non c’era modo di prepararsi, nessun posto è sicuro”.