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Cucina di Tradizione
24/07/2025
Di Patrizia Ferlini

La merenda sinoira, da ricompensa di origine contadina a momento di gioviale riscoperta gastronomica

Immaginate una grande tavolata agghindata da piatti della tradizione piemontese. Non è un pranzo e neanche una cena, ma rappresenta una delle testimonianze gastronomiche meglio conservate di questa regione italiana. La merenda sinoira sembra non essere stata scalfita dallo scorrere del tempo, anzi, sembra vivere la sua seconda giovinezza. Grazie alle reinterpretazioni in chiave contemporanea e alle manifestazioni di autenticità, è la protagonista di gite culinarie su tutto il territorio, in particolare nel basso Piemonte, dove trae le sue origini. È così che il folclore incontra le esigenze e le mode odierne.

Il precursore del brunch, ma serale

La merenda sinoira ci dà già indicazioni sulla sua collocazione nell’arco della giornata. Volendo fare un approfondimento etimologico dei termini si può risalire al latino dove merere indicava qualcosa di guadagnato e meritato, mentre sinoira, dal dialetto piemontese, richiama l’ora di cena. Nasce, infatti, come momento di ristoro nel mezzo delle giornate lavorative che nel periodo estivo e con più ore di luce diventavano più lunghe e impegnative. Questa merenda verso l’ora di cena era una pausa nelle campagne locali dove si coltivavano e raccoglievano grano e riso, si facevano trattamenti alle vigne e ci si prendeva cura degli animali al pascolo e nelle stalle. Un pasto nato per dare sollievo a quei lavoratori che trascorrevano intere giornate in campagna in qualsiasi condizione climatica, dalla pioggia battente fino al sole cocente. Una merenda che ricorda i picnic odierni consumati all’aria aperta, fatta di piatti freddi e sostanziosi, che potessero dare quell’apporto di energia necessario a proseguire e terminare le attività lavorative. Un’altra grande somiglianza la si ritrova nei contemporanei brunch, quei momenti di condivisione gastronomica a metà tra la colazione e il pranzo. La merenda sinoira era quel momento a cavallo tra la pausa del pomeriggio e la cena della sera che scandiva un diverso frangente della giornata, unendo il bisogno di integrare energia attraverso il cibo alla condivisione familiare.

La merenda nel fazzoletto

Storicamente possiamo far risalire la nascita di questa usanza nella seconda metà dell’Ottocento. La prima testimonianza scritta risale, infatti, al 1859, quando la merenda sinoira appare nel dizionario piemontese-italiano Sant’Albino sotto la definizione di “il mangiare tra il desinare e la cena”. È anche inserita in un contesto dialettale, facendo riferimento a un proverbio piemontese: “San Giusep a porta la marenda ant el fassolet, San Michel a porta la marenda an ciel” – San Giuseppe porta la merenda nel fazzoletto, San Michele porta la merenda in cielo. Una citazione che ci aiuta a capire e contestualizzare meglio questa tradizione legata a un periodo ben preciso nell’arco dell’anno: la fine di marzo con San Giuseppe e la fine di settembre con San Michele. Questo pasto era riservato al periodo estivo quando le giornate lavorative erano sì più lunghe, ma anche più abbondanti in termini di prodotti da poter consumare. Orti rigogliosi, salumi ormai giunti alla perfetta stagionatura e formaggi freschi venivano racchiusi in un tovagliolo, il già citato fassolet, e portati direttamente nei campi o consumati in casa. In funzione del luogo cambiava anche la composizione della merenda, più abbondante e variegata a casa, più ristretta ed essenziale in campo.

Cosa si mangiava durante la merenda sinoira

Il km zero era alla base della merenda sinoira. Non era un fattore ricercato o studiato, ma una naturale conseguenza dell’utilizzo dei prodotti territoriali e stagionali. Una volta ci si limitava a quello che l’orto e il frutteto producevano in quel dato periodo, senza avanzare voglie particolari e fuori stagione. La rincorsa al prodotto esotico o alle fragole in pieno inverno non era una cosa neanche lontanamente contemplata all’epoca. Nel fazzoletto, o sulla tavola, c’era solo quello che la campagna aveva da offrire. L’abilità stava nelle donne di casa che elaboravano e cucinavano gli ingredienti a disposizione rendendoli ricchi nel gusto preservandone le proprietà nutrizionali. Ma prima di arrivare ai piatti veri e propri, occorre partire dalle basi della merenda sinoira. La semplicità richiamava quei salumi che spaziavano dal lardo alla pancetta fino al salame consumato sia in versione stagionata, rigorosamente tagliato spesso, sia più fresca da spalmare sul pane. Ricordiamo che in questa zona del basso Piemonte la salsiccia di Bra era uno dei capisaldi dell’alimentazione locale, un prodotto da consumarsi crudo e accompagnato da del buon pane. Giunge ora il momento dei formaggi, vanto di questa zona, come il Raschera, il Bra, il Castelmagno e la toma di Langa. Una serie di specialità oggi ricercate e rinomate, ma che un tempo rappresentavano la quotidianità. Questi primi stuzzichini erano in genere accompagnati da mieli e confetture, anche se era la cugnà – la salsa a base di mosto d’uva e frutta fresca e secca tipica del territorio – a diventare la protagonista indiscussa.

A tavola con i piatti della tradizione

Le prime preparazioni, semplici e tradizionali, giungono con il classico condimento dei tomini freschi con la salsa verde piemontese. Una preparazione condivisa con le acciughe, prodotto giunto in queste terre percorrendo le vie del sale che collegavano il Mar Ligure alle terre oltre le catene montuose. Si procede con l’immancabile insalata russa, non ancora arricchita con il tonno, come spesso la si trova oggi nei ristoranti, ma presentata con uova sode, qualora le galline del pollaio ne avessero concesse in abbondanza. Uova che ritornano nella preparazione dei friciulin, le frittelle a base di spinaci e carne macinata, spesso realizzati anche nella variante vegetariana. Un finger food, come diremmo oggi, che allora era un’idea per rendere più gustosi i vegetali dell’orto. Scopo simile quello alla base della giardiniera. È uno degli antipasti piemontesi per eccellenza con il suo tipico gusto agrodolce e la varietà di verdure che la compongono. Carote, cavolfiori, fagiolini, sedano, cipolline e peperoni tutti in insieme in una conserva da consumarsi tutto l’anno per evitare sprechi. Imprescindibile il carpione, istituzione a base di carne, pesce, formaggio o verdure. Poteva forse mancare il vitello tonnato nella merenda sinoira? Una specialità monferrina che ben si prestava a questo lauto pasto da consumarsi in famiglia. Difficile credere che fosse presente ogni giorno vista la sua ricchezza negli ingredienti, ma resta anche oggi un simbolo di questa tradizione gastronomica che spesso si concludeva con un buon dessert. Bonet, pesche ripiene e zabaione con le melighe potevano essere il lusso da concedersi di tanto in tanto.

Il ruolo del vino e l’evoluzione della merenda

L’immagine poetica di una merenda sinoira sotto la tòpia, il pergolato, è sinonimo di convivialità ancora oggi. In qualcosa di così caratteristico era importante avere un collante tra il buon cibo e l’atmosfera pacifica del momento. A pensarci era il vino, che in queste località trova la sua massima espressione nel Dolcetto, nel Barbaresco, nel Nebbiolo o nel Barbera. L’importante era non esagerare perché, nonostante il clima rilassato e la pancia piena, la giornata di lavoro non era ancora finita. Oggi le cose sono diverse e la merenda sinoira è diventata un appuntamento importante tanto quanto l’aperitivo. Molte attività delle Langhe, del Roero, del Monferrato, ma anche del torinese, ospitano eventi a tema dove provare l’esperienza di una volta in un contesto più gioviale e piacevole, magari da consumarsi come picnic sotto l’ombra degli alberi o in locali che si prestano a mantenere viva questa tradizione. Lo fanno anche aggiungendo tocchi di contemporaneità, rielaborando le ricette della tradizione, proponendola sottoforma di aperitivi e taglieri per avvicinarsi a tutte le fasce d’età, divulgando una storia che merita di essere raccontata. Ricreare quello scenario tipico di una volta non sarà più possibile, ma la merenda sinoira rimarrà un’eccellenza tutta piemontese in eterno.

Patrizia Ferlini
Patrizia Ferlini

Laureata in Architettura, cambia i piani per dedicarsi alla sua più grande passione: il cibo. Con il trasferimento negli Stati Uniti inizia il percorso nelle cucine in giro per il mondo. Oggi scrive di cibo, di vino e di cultura gastronomica per mantenere vive quelle tradizioni che contribuiscono a creare la cultura di un popolo. La sua ultima pubblicazione “Le Quattro Province a tavola” è un inno alla cucina contadina, dove l’Appennino fa da comune denominatore.

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